Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.
La prima guerra punica: l’occasione del conflitto
L’0ccasione del conflitto coi Cartaginesi di presentò dieci anni dopo la partenza di Pirro dall’Italia. Bande di mercenari campani, detti Mamertini (ossia “uomini Mamers”, da Marte, dio della guerra), assoldate da Agatocle, tiranno di Siracusa, dopo la morte di questo si erano impossessate a tradimento di Messina, trucidandone gli abitanti, e di lì minacciavano varie località dell’isola. Un ufficiale siracusano, Gerone, che li sconfisse, fu acclamato re di Siracusa.
Ripresa la guerra, egli ambiva a occupare Messina, e a tale scopo si era alleato coi Cartaginesi, che lo prevennero, introducendo un loro presidio nella rocca. I Mamertini, stretti tra due fuochi, chiesero allora la protezione di Roma, signora della vicina Reggio.
Il Senato esitò a lungo: sentiva di offuscare il buon nome e la fede tradizionali, aiutando dei mercenari crudeli e invadendo un territorio che Cartagine considerava propria zona di influenza. Ma il popolo romano sentiva che se lo stretto di Messina fosse casuto nelle mani dei Cartaginesi, la sicurezza della penisola era minacciata. La Sicilia sarebbe diventata, come scrisse lo storico Polibio, il ponte di passaggio per i Cartaginesi in Italia. Cartagine era ormai incontrastata padrona del Mediterraneo occidentale e, col possesso delle tre maggiori isole e l’alleanza coi Galli della Provenza e coi Liguri, avviluppava tutto il Tirreno.
Perciò il console Appio Claudio, autorizzato da un decreto del popolo, assai probabilmente contro il parere dei Senatori, nell’estate del 264 aC varcò lo stretto e Messina fu occupata. Dopo i primi successi romani, Gerone si staccò dall’alleanza cartaginese, schierandosi a fianco di Roma, sotto la cui protezione si posero molte città siciliane.
Così il conflitto, inizialmente limitato a Messina, si estese a tutta l’isola.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La prima flotta romana
Si presentava a Roma questo imperativo: diventare una grande potenza anche sul mare. Era uno sforzo non facile, per una città essenzialmente continentale, che non aveva mai tentato avventure marinare e aveva rifuggito fino allora dei commerci oltremarini.
Ma la fortuna di Roma e il segreto della sua grandezza erano nella sua indomita volontà, nella sua fermezza di propositi, nella sua eroica disciplina.
La leggenda ha inventato favole strane: essa dice che le navi furono fatte a Ostia e ad Anzio, e che i marinai si allenavano al remo sulla spiaggia; in due mesi si sarebbero avute così centoquarantaquattro triremi.
I Romani erano invece navigatori prima delle guerre puniche, come mostra il trattato del 509 o del 384 aC con Cartagine… i Romani poi non avevano bisogno di ciò avendo conquistato l’Italia meridionale con città come Taranto: essi avevano modo di prendere, con la forza o con il denaro, da questi paesi, navi con tutto l’equipaggio. Quindi la flotta del 260 aC fu forse costruita ad Ostia ed Anzio per ordine del Senato, ma fu anche costruita con l’ausilio delle città costiere dell’Italia meridionale e dell’Etruria.
La formazione della flotta del 260 aC segna l’inizio delle lotte terribili per il predominio del Mediterraneo. Essa era formata di centoventi quinqueremi e tatticamente seguiva l’antica formazione a triremi. (A. Silva)
La prima guerra punica
Dopo la guerra combattuta contro Pirro, terminata con la conquista di Taranto e della circostante regione salentina, Roma divenne la più potente città d’Italia; essa dominava ormai tutta la Penisola e i suoi eserciti erano invincibili.
Sulle coste settentrionali dell’Africa, ove oggi sorge Tunisi, proprio di fronte alla Sicilia, vi era Cartagine, ricca e potente città, padrona di tutti i traffici marittimi del Mediterraneo. I Cartaginesi possedevano una potente flotta e avevano fondato delle colonie in Sardegna e in Sicilia. Roma ormai grande e potente, spingeva le sue navi sullo stesso mare.
I Cartaginesi, che vedevano mal volentieri il continuo crescere della potenza romana, cercavano di ostacolarla in tutti i modi. La guerra tra le due potenti rivali scoppiò quando Roma tentò di conquistare la Sicilia.
I Romani, fino allora, avevano combattuto soltanto per terra. Ora incontravano un nemico che aveva la sua forza sul mare, e sul mare bisognava batterlo. In due mesi costruirono una flotta si centoventi navi e al affidarono al comando del console Caio Duilio. Il console conosceva la superiorità dei nemici e trovò il modo di trasformare il combattimento da navale a terrestre. Armò gli scafi con una specie di ponte lavatoio munito di ganci, detti corvi, e li mandò ad assalire la flotta nemica che avanzava, sicura di sè, quasi senza schierarsi. Le navi romane affiancarono le cartaginesi; i corvi agganciarono i bordi e i fanti balzarono sul ponte nemico sorprendendo e sgominando gli avversari. Lo scontro avvenne nelle acque di Milazzo e fu la prima vittoria navale dei Romani.
Roma, imbaldanzita dal successo, decise di portare la guerra sul territorio nemico. Una poderosa flotta di navi sbarcò i soldati romani davanti a Cartagine. Presto, però, essi furono indeboliti dal caldo, dalla sete e dagli scarsi rifornimenti. I nemici li assalirono con vigore disperato, li sconfissero e presero prigioniero lo stesso comandante romano, il console Attilio Regolo.
Pur avendo riportato una vittoria importante, i Cartaginesi temevano la rivincita di Roma ed erano stanchi della guerra: preferivano i loro ricchi commerci al rischio delle armi. Decisero, perciò, di lasciar libero sulla parola Attilio Regolo. Egli doveva recarsi a Roma e ottenere buone condizioni di pace; in caso di fallimento della missione, sarebbe ritornato in Africa, prigioniero.
Il console venne a Roma e, in Senato sconsigliò i concittadini a trattare con il nemico: Cartagine non avrebbe potuto resistere a lungo a nuove battaglie. Poi ritornò volontariamente nelle mani dei Cartaginesi, i quali lo fecero morire rotolandolo in una botte irta di chiodi.
La guerra riprese per terra e per mare e terminò nel 241 aC, con la vittoria dei Romani. Essi tolsero a Cartagine i possedimenti in Sicilia, e in seguito quelli della Sardegna e della Corsica. La campagna vittoriosa si disse “prima guerra punica”; i Romani, infatti, chiamavano Puni (Fenici) gli abitanti di Cartagine.
Caio Duilio
A questo complesso di navi da battagli Roma diede un comandante degno della gravità del compito che lo attendeva: il console Caio Duilio.
Lo scontro avvenne nella primavera del 260, nelle acque di Milazzo: Duilio riportò la prima grande vittoria navale dei Romani, sgominando la ben più numerosa armata cartaginese, e catturando ben cinquanta vascelli nemici, tredici affondandoli, e facendo inoltre settemila prigionieri.
Si dice che una gran parte del merito della vittoria fosse dovuto a un geniale arnese applicato dai Romani al bordo delle loro navi: il corvo o raffio, una specie di enorme uncino che veniva gettato sulla nave avversaria, obbligandola ad accostarsi, e provocando così un combattimento quasi terrestre. Naturalmente però la vittoria fu specialmente merito della genialità di Duilio e del valore dei soldati romani.
L’eco della sconfitta subita a Milazzo da Cartagine fu tale, che la sua potenza cominciò da allora a declinare. Pareva impossibile al mondo che Roma avesse potuto sconfiggere la potentissima armata dei Punici. Eppure questo trionfo segnava l’inizio della politica di espansione dell’Urbe oltre i confini territoriali della Penisola; e a Caio Duilio, che ad esso aveva legato il suo nome, il Senato e la cittadinanza romana tributarono onori trionfali.
A ricordo di quella vittoria fu elevato nel Foro una colonna rostrato, che esiste in parte ancor oggi.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Vita di Cartagine
Cartagine era stata fondata sessantun’anni prima di Roma dai Fenici e fu per molti secoli il centro dei commerci che si svolgevano nel Mediterraneo. I ricchi abitavano case a sei piani (veri grattacieli, per quell’epoca!) e avevano fatto costruire templi con colonne rivestite d’oro e d’argento, ornati di statue d’oro massiccio.
I Cartaginesi, come altri popoli di origine orientale, adoravano le divinità offrendo loro quanto di più caro avevano, persino vittime umane.
Nel porto militare di Cartagine potevano mettere l’ancora anche duecento navi. Al centro, era stata allestita un’isola artificiale, dalla quale gli ammiragli passavano in rassegna la flotta.
A Cartagine non c’era democrazia: il potere era nelle mani dei mercanti più ricchi. La città traeva grandi guadagni anche dalle industrie e dall’agricoltura.
Potenza di Cartagine
Cartagine, una colonia fenicia, sorgeva sulla costa settentrionale dell’Africa, presso l’odierna Tunisi, in una felice posizione geografica, a poca distanza dalla Sicilia, con un ottimo porto naturale.
Essa era riuscita a strappare ai Greci della Sicilia e della Magna Grecia e agli Etruschi il primato commerciale sul Mediterraneo occidentale, fondando colonie sulle coste dell’Africa settentrionale, nella Spagna meridionale, in Corsica, in Sardegna e nella Sicilia occidentale.
I Cartaginesi verso il 280 aC erano padroni di quasi tutta la Sicilia, tranne del territorio intorno a Messina e della costa orientale soggetta a Siracusa.
Le navi da guerra prima delle guerre puniche
Le navi da guerra di quell’epoca erano mosse a vela e a remi; erano munite a prua di speroni ferrati, i rostri, mediante i quali potevano speronare e affondare le navi nemiche.
Una battaglia navale richiedeva coraggio e intelligenza, e marinai svelti ai remi, alle vele, al timone. Le navi si rincorrevano sul mare azzurro e cercavano di raggiungersi. Quando due navi erano vicine, la più agile di esse puntava la prua armata di rostro contro l’altra, la squarciava e la affondava.
Caio Duilio
Roma era ormai una grande potenza terrestre; i suoi soldati avevano dimostrato di saper combattere con ineguagliabile valore e di saper vincere. Ma cosa sarebbe successo in uno scontro navale?
I Cartaginesi erano provetti marinai e da secoli avevano una flotta militare ben fornita; i Romani erano ancora ai primi passi. Ma l’ingegno di Caio Duilio supplì a tale inferiorità di Roma. Egli era console quando scoppiò la guerra tra Roma e Cartagine. Ordinò allora che venissero costruiti i corvi, speciali ponti per ogni nave romana; sull’altro lato erano infissi degli enormi uncini. Questi ponti, detti corvi, avrebbero agganciato la nave nemica, costringendo l’equipaggio a una lotta corpo a corpo. Con tale accorgimento, Caio Duilio affrontò le navi di Cartagine nelle acque di Milazzo, in Sicilia, e ottenne la piena vittoria.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Attilio Regolo
Dopo la vittoria di Milazzo, i Romani sbarcarono sulla costa africana. L’esercito romano era comandato da Attilio Regolo, il quale, sconfitto, cadde prigioniero dei Cartaginesi.
Condotto nella città nemica, gli venne dato l’incarico di ritornare a Roma, come ambasciatore. Egli doveva persuadere i Romani a fare la pace. Se fosse riuscito a convincere i senatori alla pace, sarebbe stato salvo. Se no, doveva tornare a Cartagine, dove l’avrebbe atteso una straziante morte.
Attilio Regolo accettò l’incarico e diede la sua parola d’onore di tornare a Cartagine nel caso di insuccesso.
Giunto a Roma, invece di consigliare i Senatori a far pace con Cartagine, egli disse di continuare la guerra. “Il momento è propizio”, disse Attilio Regolo, “i Cartaginesi hanno perduto gran parte della loro flotta e si sentono deboli. Bisogna dunque insistere, per avere la vittoria”.
Quando fu sicuro di avere convinto tutti i Senatori, si dispose al ritorno a Cartagine, dove l’attendeva sicura morte.
Tutti lo sconsigliavano di partire. I familiari lo trattenevano, piangendo. Ma egli diceva: “Un Romano ha una parola sola. Io ho dato la mia. Ho promesso di ritornare e devo mantenere la promessa fatta al nemico anche se mi costerà la vita”.
E partì. Tra l’ammirazione e il dolore di tutta Roma.
I Cartaginesi non seppero apprezzare la grandezza d’animo di questo grande Romano. Erano un popolo ricco ma crudele, che non capiva i gesti generosi degli eroi.
Attilio Regolo fu chiuso in una botte, irta di chiodi sporgenti nell’interno. La botte venne fatta rotolare lungo i fianchi di un monte.
La morte di Attilio Regolo fu dolorosa, ma servì da esempio, per dimostrare che i Romani erano uomini d’onore.
Come si concluse la prima guerra punica
La prima guerra punica si concluse con la vittoria di Roma: i Cartaginesi perdettero la Sicilia, che divenne così la prima grande provincia romana. A Roma, nel Foro, venne eretta la colonna rostrata, decorata cioè con i rostri delle navi catturate al nemico.
Le navi romane
A contatto con i Cartaginesi, di cui furono acerrimi rivali, i Romani si fecero esperti marinai e potenziarono la loro flotta. Le navi romane erano costruite con lunghe tavole di pino e di abete, unite con chiodi di legno e coperte all’esterno di lana intrisa nel catrame, su cui era stesa una lastra di piombo.
Le navi da guerra erano lunghe e sottili, spinte da due, tre, e perfino cinque file di remi: si dicevano perciò biremi, triremi e quinqueremi. Invece le navi da trasporto, cariche di olio, vino, cereali, bestiame, erano larghe, possenti, più lente.
Possedevano un’ampia vela quadrata e tenevano legata a rimorchio quasi sempre una scialuppa di salvataggio, chiamata scafo. Un marinaio di vedetta stava attento a che non si riempisse di acqua e affondasse. Navigavano solo di giorno e poco d’inverno. Durissima era la disciplina imposta ai marinai.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La seconda guerra punica
I Cartaginesi erano ancora molto forti. Essi volevano tornare ad essere padroni del mare, e dopo qualche anno Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro.
I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale, che si chiamava Annibale. I Romani sorvegliavano il mare tra Cartagine e la Sicilia perchè pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale ancò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani.
Attraverso le Alpi non c’erano strade. Le montagne erano coperte di boschi, di neve o di ghiaccio. Sulle montagne abitavano popolazioni selvagge, che tendevano imboscate a tutti coloro che capitavano nelle loro terre. Per valicare le Alpi, Annibale dovette aprirsi una nuova strada e, al tempo stesso, combattere i montanari nemici. Ma riuscì ugualmente ad attraversare le montagne con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino con alcuni elefanti, che erano un po’ i carri armati di quel tempo.
Perchè scoppiò la seconda guerra punica
Cartagine, benchè sconfitta, non si dette mai per vinta e cercava un pretesto per poter riprendere la guerra contro Roma. Troppo forte era il desiderio di rivincita, di tornare padrona assoluta del Mediterraneo e di rioccupare le tre grandi isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica.
L’occasione venne dopo alcuni anni di pace, quando i Romani accorsero in difesa di Sagunto, una città della Spagna assalita dai Cartaginesi. Questi, nonostante l’intervento, non tolsero l’assedio ed ebbe così inizio la seconda guerra punica.
Vittorie di Annibale
Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso, come per miracolo, nella pianura padana. L’esercito romano si mosse rapidamente per affrontare il nemico, ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente contro l’esercito di Annibale.
I Cartaginesi vinsero una prima volta presso il fiume Ticino. Allora i Romani si ritirarono un poco più a sud. Sulle rive del fiume Trebbia ci fu un’altra battaglia; i Cartaginesi vinsero anche questa. Allora i Romani si ritirarono ancora fin quasi alle soglie di Roma.
Questa volta erano decisi a vincere e, quando seppero che Annibale si trovava presso il lago Trasimeno, si misero in marcia anch’essi verso il lago. Ma Annibale, sentendo avvicinarsi i Romani, finse di ritirarsi, nascondendosi invece con il suo esercito sulle colline che dominavano il lago, favorito anche da una fitta nebbia.
L’esercito romano che lo inseguiva fu assalito all’improvviso mentre avanzava lungo le rive del lago, così anche nella battaglia del lago Trasimeno i Romani furono battuti.
Annibale pensava che alla fine i Romani si sarebbero arresi, ma questi perdevano le battaglie e non si arrendevano. A Canne, in Puglia, i Romani furono sconfitti ancora una volta. Annibale finse di ritirarsi e fu inseguito dai Romani che rimasero così circondati. Morirono tanti Romani che Annibale, dopo la battaglia, fece raccogliere tre cesti di quegli anelli d’oro che i patrizi portavano al dito.
Consuetudini di Annibale
Pur essendo generale Annibale conduceva una vita durissima. Nel dormire e nel vegliare non faceva nessuna differenza tra la notte e il giorno; dava al riposo soltanto il tempo che gli rimaneva dopo aver compiuto il suo lavoro, e non cercava, per dormire, ne la morbidezza del letto ne il silenzio. Più volte fu visto giacere a terra fra le guardie e i cocchi dei soldati, coperto di un semplice mantello.
Ritratto di Annibale
Audacissimo nelle imprese rischiose, ma prudentissimo nei pericoli, Annibale non poteva essere stancato da nessuna impresa e da nessuna fatica. Poteva indifferentemente sopportare il caldo e il freddo. Moderato nel bere, non mangiava oltre la necessità; non aveva limiti nella veglia e al sonno concedeva solo il tempo minimo necessario. Non si distingueva dagli altri soldati per le vesti, ma per le armi e per i cavalli; primo fra tutti i fanti e i cavalieri nell’avviarsi alla battaglia, ultimo nell’allontanarsi. Ma a tale somma di virtù corrispondevano altrettanto difetti: crudele fino ad essere disumano, perfido, menzognero e spergiuro, non aveva timore degli dei ne rispetto per gli uomini. (da Livio)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Annibale
Questa volta Cartagine ebbe la fortuna di contare su un abilissimo e coraggioso generale: Annibale.
Pochi comandanti lasciarono nella storia antica una fama pari a quella lasciata dal grande Cartaginese. Egli era veramente un uomo straordinario, che dedicò la sua vita per la grandezza della patria.
Da giovane, in compagnia del padre, aveva combattuto in Spagna contro i Romani. Il padre, prima di morire, aveva fatto giurare eterno odio a Roma. Era molto coraggioso, forte, ardito e sprezzante di ogni pericolo; dormiva poco e lavorava moltissimo.
Passava giornate intere con i suoi soldati tra stenti e fatiche, sempre pronto ad impegnare battaglia con il nemico. Faceva lunghe ed estenuanti marce, spesso sopportando la fame e la sete. Vestiva assai modestamente. In guerra era sempre il primo ad avanzare contro il nemico e l’ultimo ad abbandonare il campo di battaglia.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il piano di Annibale
Annibale attuò un piano molto audace: dalla Spagna, attraverso le Alpi, giunse in Italia e piombò di sorpresa addosso ai Romani. Cinque mesi durò il viaggio di Annibale dalla Spagna in Italia, e quindici giorni furono necessari per passare le Alpi. Con un esercito numeroso il generale cartaginese superò difficoltà di ogni genere, camminando per dirupi scoscesi, in mezzo alla neve e al ghiaccio, combattendo una guerriglia insidiosa contro i montanari. Molti soldati morirono per la strada. Le bestie, elefanti e cavalli, erano sfinite per la fame, perchè lassù mancavano i pascoli. La discesa fu più difficile della salita, ma alla fine l’esercito cartaginese raggiunse la Pianura Padana.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Furbizia di Annibale
Annibale, il grande nemico dei Romani, non solo sapeva combattere bene, ma conosceva mille furbizie e spesso le usava durante la guerra.
Una volta doveva combattere per mare contro un re che era alleato dei Romani. Questo re era molto più forte di lui, bisognava vincerlo con l’inganno, con l’astuzia. Annibale, allora, chiamò a raccolta i marinai e disse loro: “Amici, raccogliete dei serpenti velenosi vivi, quanti più ne potete trovare, e chiudeteli in vasi di coccio. Poi, quando si attaccherà battaglia, venite dietro a me, e assaliremo tutti insieme la nave del re”.
“E che faremo dei vasi di coccio?”
“Li getteremo sulle navi nemiche quando ci verranno addosso!”
“Bene, comandante. Ma come sapremo qual è la nave del re?”
“Ci penso io!”
Infatti, poco prima della battaglia, quando le due flotte erano schierate l’una di fronte all’altra, Annibale mandò un araldo, in una barchetta, in mezzo alla flotta avversaria.
“Ehi, tu, che cerchi?”, gli domandarono.
“Cerco il re: devo consegnargli questa lettera da parte di Annibale”.
Lo guidarono alla nave ammiraglia e i marinai di Annibale, che stavano a vedere, capirono così quale era e dove si trovava. Il re aprì la lettera: credeva che vi fossero delle proposte di pace, invece non trovò che delle parole di beffa!
Allora ordinò che si cominciasse a combattere. Subito le navi di Annibale assalirono quella del re da ogni parte e la costrinsero a fuggire, poi i marinai presero a gettare i vasi di coccio sulle altre navi nemiche. E i serpenti velenosi si sparsero sulle tolde avversarie portando lo spavento e la morte.
Così Annibale, con pochi uomini e molta furberia, sconfisse una potente flotta.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Gli elefanti di Annibale
Gli elefanti di Annibale, quando egli mosse dalla Spagna per venire ad invadere l’Italia, arrivati sulle rive del fiume Rodano non volevano più marciare. “Arrilì! Arrilà!” urlavano i conducenti, incitandoli e punzecchiandoli, “Va lì! Va lì! Ih! Oh! Su!” … ma era lo stesso che parlare al muro. Quegli enormi bestioni si erano impuntati, e non c’era verso di smuoverli.
E tutto l’esercito stava fermo; e Annibale, per cui ogni giorno voleva dire qualcosa, andava su e giù con il frustino, ed era assai inquieto e contrariato.
“Arrilì! Arrilà! Arrisù! Arrigiù! Che i tristi Numi vi fulmino, maledette bestiacce! Ih! Ih! Ih! Là!”
Si provarono anche a spingerli… sì! Ma era meglio dover spingere una montagna! Gli elefanti non si spostavano di un passo; cominciarono anzi a recalcitrare, alzando minacciosamente le proboscidi e guardando male con quegli occhietti furbi e feroci, pestando nervosamente la terra coi piedi.
E’ inutile! Ormai, e chi sa perchè, si erano spaventati dell’acqua e si erano intestarditi di non passare, e non passavano. Forse il giorno dopo…
Ma Annibale non voleva aspettare fino al giorno dopo!
Egli chiama un fantaccino e gli chiede: “Sei tu che sai nuotare come un pesce?”
“Lo dicono i miei compagni, capitano”
“Allora vieni qui! Piglia un bastone!”
Il fantaccino raccatta un bastone.
“Vieni con me!” gli dice Annibale. Lo conduce presso un elefante, il primo della fila, sulle rive del fiume: “Stai attento!” gli dice Annibale “Quando io ti darò il segno, appena ogni conducente sarà a posto, vicino alla sua bestia, tu da’ una bastonata nel ceppo dell’orecchia a questo elefante”
“Ma io… capitano…”
“Non sai dare una bastonata?”
“Le bastonate le so dare, me è questione…”
“Di che hai paura?”
“Gli è che l’elefante, se io gli dò una bastonata, mi afferra con la proboscide e mi scaraventa contro un albero, oppure mi mette sotto i piedi!”
“E tu” lo guarda maliziosamente Annibale, “non sai nuotare?”
“Sì”
“Buttati allora subito a nuoto, e nuota!”
“E se l’elefante…”
“Via!” comandò Annibale. Quando Annibale comandava non c’era da far altro che obbedire.
“Voi!” comandò poi anche agli altri conducenti, “State pronti a mandar avanti gli elefanti!” e al fantaccino: “A te! Via!”
Il povero disgraziato si avvicina alla prima bestia della fila, col bastone dietro la schiena, fingendo di non capire. Sta lì un poco, tanto che l’elefante si svii da ogni sospetto. Intanto guarda l’acqua del fiume, per misurare ad occhio la distanza e per contare i balzi che gli ci vogliono per tuffarsi. Con un occhio guarda il Rodano, e con quell’altro l’elefante. A un tratto, quando questo meno se lo aspetta, alza il bastone e gli dà una gran bastonata nell’orecchia, così forte, che l’orecchia dell’animale rimbomba con uno schiocco e uno scoppio.
Numi del firmamento! L’elefante dà un barrito tremendo; drizza la proboscide; il fantaccino si è gettato in acqua; l’elefante, che non perdona, si butta in acqua anche lui.
“Arrilì! Arrilà!” urlano i conducenti agli altri elefanti. Questi, vedendo il primo che si è buttato, gli vanno dietro come pecore…
Così, in men che non si dica, furono tutti sull’altra riva.
“Avanti!” potè allora trionfalmente ordinare Annibale, rimontando a cavallo. E l’esercito proseguì, marciando verso le Alpi e contro l’Italia. (R. Maurizi)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE L’ardimento di Scipione giovinetto
Annibale, attraversate le Alpi, marciava su Roma; il pericolo era grave ed imminente. L’esercito romano era comandato da un valoroso console che aveva con sè il figlio diciassettenne, il quale aveva voluto seguire per la prima volta il padre in guerra. La battaglia si accese lungo le sponde del fiume Ticino. Dopo accanito combattimento la cavalleria cartaginese riuscì a travolgere le schiere romane.
Il console stesso, ormai circondato, stava per cadere nelle mani del nemico, quando una voce echeggiò sul campo. Era il figlio del console che d’un balzo si era avvicinato al padre ormai in pericolo e, facendogli scudo col proprio corpo, riusciva a portarlo in salvo.
Mirabile esempio di ardimento e di amor filiale. Quel giovinetto era Scipione, il futuro vincitore di Annibale.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia del Trasimeno
Annibale si accampò nella pianura, tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, e collocò il grosso del suo esercito sulle pendici dei monti, nascondendo la cavalleria ai piedi di certe alture vicine, per tenerla pronta a sbarrare il passo ai Romani. Infatti i Romani, appena furono entrati in campo, si sentirono improvvisamente attaccare da tutte le parti prima ancora che potessero trar fuori le spade.
Il console Flaminio tentò di riordinare i soldati sbigottiti, ma una fitta nebbia levatasi dal lago impediva la visuale, tanto che era impossibile riconoscere le bandiere, mentre il rumore ed il tumulto impedivano di udire gli ordini trasmessi. Ogni soldato si trovava così a combattere secondo il proprio ardore e talento.
La zuffa durò per ben tre ore, aspra ovunque ma soprattutto intorno al console, il quale fu passato da parte a parte dalla lancia di un cavaliere che Annibale aveva arruolato in Gallia.
Nella battaglia morirono 15.000 Romani; 10.000 furono i dispersi. Dei nemici 1.500 rimasero morti sul campo. (da Livio)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Annibale ha paura
Dopo le vittoriose battaglie al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, parve che Annibale volesse marciare su Roma; invece deviò verso l’Adriatico e si spinse nell’Italia meridionale. Roma era una città fortificata, cinta da colonie romane e latine fedeli: bisognava prenderla d’assalto e non con l’assedio: ma Annibale non aveva le macchine necessarie e temeva sorprese alle spalle.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il “Temporeggiatore”
Quinto Fabio Massimo fu detto il “Temporeggiatore” perchè la sua tattica era quella di stancare ed indebolire il nemico rimandando il più possibile la battaglia finale.
I soldati romani correvano verso le campagne, sorprendevano alla spicciolata le pattuglie nemiche, molestando i carriaggi e i trasporti ma si ritiravano appena appariva il grosso dell’esercito; essi non dovevano in nessun caso accettare battaglia in campo aperto, perchè i nemici erano più forti e numerosi.
Il piano di Fabio Massimo era semplice: bisognava logorare le forze dei Cartaginesi, finchè essi, sfiniti, non avessero ceduto.
Questo modo di fare la guerra, però, non soddisfò i Romani; essi erano ansiosi di combattere in campo aperto col nemico e perciò il dittatore venne presto destituito.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Fabio Massimo e i buoi di Annibale
Il dittatore Quinto Fabio Massimo era riuscito a rinchiudere in una specie di vicolo cieco, tra il fiume Volturno, il monte Callicula e il passo di Casilino, i Cartaginesi. Egli si riprometteva di sterminarli l’indomani all’alba. Ma Annibale, nella notte, radunati tutti i buoi che seguivano il suo esercito come vettovagliamento, fece legare sulle corna di ognuno un fascio di sarmenti. Poi ordinò di dar fuoco a quei fasci e di spingere gli animali terrorizzati verso il valico. Quello strano fiume ardente ruppe lo sbarramento romano e dilagò nella pianura. Soltanto all’alba i Romani si accorsero che, dietro la mandria, se ne era andato anche l’esercito cartaginese.
Quinto Fabio Massimo perse così una facile occasione per distruggere l’esercito nemico.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La battaglia di Canne
Due furono le astuzie che Annibale usò a Canne. La prima fu nella scelta della posizione, per cui schierò i soldati con le spalle al vento il quale gettava la polvere negli occhi dei Romani; la seconda fu nel modo di schierare i suoi uomini. Mise alle due ali i più forti e valorosi, i più deboli nel centro, disponendoli a cuneo in modo che essi precedessero i più validi. Al quali ordinò che non appena i Romani avessero messo in fuga il centro penetrando così nel vuoto lasciato i dai fuggiaschi, essi li assalissero di fianco, li aggirassero, chiudendoli in una sacca. E così vinse.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Canne
Mentre a Roma si facevano i preparativi per la prossima campagna, era già incominciata la guerra nell’Apulia. Appena la stagione permise di abbandonare i quartieri d’inverno, Annibale si mosse, e prendendo, com’era sua abitudine, egli stesso l’iniziativa della guerra e l’offensiva, partì da Geronio, dirigendosi verso sud; lasciando da un lato Lucera, passò l’Ofanto e pree il castello di Canne (tra Canosa e Barletta) che dominava il piano canosino, e che fino allora aveva servito da magazzino principale dei Romani. L’esercito romano, il quale, dopo che Fabio ebbe deposta a metà d’autunno, a norma della costituzione, la carica di dittatore, era stato posto sotto il comando di Gneo Servilio e di Marco Regolo, prima come consoli, poi come proconsoli, non aveva saputo impedire quella piccola perdita.
Sia per riguardi militari sia per riguardi politici diveniva sempre più urgente la necessità di mettere un freno ai progressi di Annibale, per mezzo di una battaglia campale. Con questo preciso incarico del Senato giunsero all’Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone sul principio dell’estate 538 di Roma (corrispondente al 216 aC). Con le quattro nuove legioni e col corrispondente contingente degli Italici che essi portatono con sè, l’esercito romano ammontava a 80.000 fanti, metà cittadini e metà federati, ed a 6.000 cavalieri, un terzo cittadini e due terzi federati. L’esercito di Annibale invece vantava 10.000 cavalieri, ma soltanto 40.000 fanti.
Annibale desiderava ardentemente una battaglia non solo per i motivi generali già accennati, ma anche perchè la grande pianura dell’Apulia gli permetteva di utilizzare tutta la superiorità della sua cavalleria e perchè il mantenimento del suo grande esercito, stabilito vicino ad un eservito di piazzeforti, ben presto, nonostante la superiorità della cavalleria, gli sarebbe riuscito difficile.
Anche i capi dell’esercito romano erano, come dicemmo, in generale decisi di azzuffarsi e perciò si avvicinavano al nemico; ma i più avveduti, conoscendo la posizione di Annibale, volevano che si aspettasse e si prendesso soltanto posizione vicino al nemico per obbligarlo a ritirarsi o ad accettare battaglia su un terreno meno favorevole.
Annibale accampava presso Canne, sulla riva destra dell’Aufidus. Paolo mise il suo campo sulle due rive del fiume, in modo che la forza principale fosse sulla riva sinisra, ma un forte corpo prendeva pure posizione immediata sulla riva destra immediatamente di fronte al nemico, per impedirgli il vettovagliamento, e forse anche per minacciare Canne. Annibale, al quale premeva di venire presto a battaglia, attraversò il fiume col grosso delle sue truppe, e offrì battaglia sulla riva sinistra, ma Paolo non accettò.
Ma al console democratico spiacque questa pedanteria militare; si era detto tanto di voler entrare in campagna non per starvi a far da sentinella, ma per adoperarvi le spade! Egli comandò di marciare sul nemico dovunque lo si trovasse. Per l’antico costume, stoltamente conservato, il voto preponderante nel consiglio di guerra si avvicendava ogni giorno tra i due supremi comandanti: fu quindi necessario adattarsi alla volontà dell’eroe della piazza.
Sulla riva sinistra, dove l’ampio campo offriva buon gioco alla preponderante cavalleria del nemico, neppure egli voleva battersi; ma decise di riunire tutte le complessive forze romane sulla riva destra, prendendo posizione fra il campo cartaginese e Canne, e offrir battaglia minacciando seriamente la città.
Una divisione di 10.000 uomini rimase nell’accampamento principale romano, con l’ordine di impadronirsi del campo cartaginese durante il combattimento, tagliando così all’esercito nemico la ritirata oltre il fiume. Il grosso dell’esercito romano, coll’albeggiare del 2 agosto secondo il calendario nonriformato, forse nel mese di giugno secondo il calendario riformato, passò il fiume, scarso d’acqua in quella stagione, e che non impediva molto i movimenti delle truppe e si ordinò in linea all’occidente di Canne, vicino al campo minore romano, cui si appoggiavano tanto l’ala destra dei Romani, quanto l’ala sinistra dei Cartaginesi. La cavalleria romana stava ai lati, quella della milizia cittadina, meno valida e comandata da Paolo, a destra del fiume; quella dei confederati, più valida, a sinistra verso la pianura era guidata da Verrone. La fanteria in linee molto profonde comandate dal proconsole Gneo Servilio componeva il centro.
Annibale dispose la sua fanteria in semicerchio di fronte a quella dei Romani e in modo che le truppe celtiche ed iberiche, con la loro armatura nazionale, formassero il centro avanzato; le libiche, armate alla romana, le due ali ripiegate. Verso il fiume si spiegò tutta la cavalleria pesante sotto gli ordini di Asdrubale; verso la pianura la cavalleria leggera numidica.
Dopo un lieve combattimento di avamposti fra le truppe leggere, tutta la linea si trovò impegnata nel combattimento. Dove combatteva la cavalleria leggera dei Cartaginesi contro la cavalleria pesante di Varrone, le cariche dei cavalieri numidici si succedevano le une alle altre senza riuscire a un risultato decisivo. Nel centro invece le legioni respinsero del tutto le truppe iberiche e le galliche che prima scontrarono, e approfittando del vantaggio ottenuto, le inseguirono animosamente.
Ma intanto la fortuna aveva volto le spalle ai Romani sull’ala destra. Annibale aveva solo voluto tenere occupata l’ala sinistra della cavalleria nemica, perchè Asdrubale potesse spiegarsi con tutta la cavalleria regolare contro la debole ala destra e respingerla per la prima. Dopo una breve resistenza i cavalieri romani piegarono e quelli che non furono tagliati a pezzi, furono cacciati all’insù del fiume e dispersi nella pianura; Paolo, ferito, cavalcò verso il centro dell’esercito volendo cambiare la sorte delle legioni e condividerla con esse. Per trarre maggior profitto dalla vittoria riportata contro l’avanzata fanteria nemica, le legioni avevano cambiata la loro fronte in una colonna d’attacco che penetrava in forma di cuneo nelle file del centro nemico. Da questa posizione esse furono assalite con impeto dai due lati della fanteria libica che, convergente, si avanzava a destra e a sinistra; una parte delle legioni fu costretta a fermarsi per difendersi contro gli attacchi di fianco per cui, non solo le fu impedito di avanzare, ma la massa della fanteria, ordinata in file troppo profonde, non ebbe assolutamente lo spazio per svolgersi.
Intanto Asdrubale, finito il suo compito sull’ala comandata da Paolo, raccolse e riordinò i cavalieri, e passando dietro il centro nemico, li condusse verso l’ala comandata da Verrone. La cavalleria italica messa già abbastanza alle strette dai Numidi, sorpresa da nuove forze si disperse definitivamente. Asdrubale lasciando ai Numidi la cura di inseguire i fuggitivi, riordinò per la terza volta i suoi squadroni coi quali prese alle spalle la fanteria romana.
Questo ultimo colpo fu decisivo. La fuga era impossibile e non si dava quartiere; non c’è dorse altro esempio di un esercito tanto numeroso distrutto interamente sul campo stesso di battaglia e con sì lieve perdita dell’avversario, come fu dell’esercito romano presso Canne.
Le perdite di Annibale non superavano i 6.000 uomini, due terzi dei quali erano Celti che sostennero il primo urto delle legioni. Dei 76.000 Romani, invece, che erano schierati in battaglia, 70.000 morti coprivano il campo, fra i quali il console Lucio Paolo, il proconsole Gneo Servilio, due terzi degli ufficiali superiori, 80 senatori. Il console Marco Verrone soltanto si salvò per la sua repentina risoluzione e per la velocità del suo destriero che lo portò a Venosa ed ebbe l’animo di sopravvivere. Anche i 10.000 uomini di presidio nel campo romano furono per la gran parte fatti prigionieri: solo alcune migliaia fra le truppe di presidio e dell’esercito scamparono in Canusio. E come se in quell’anno ogni cosa dovesse andar perduta per Roma, la legione spedita nella Gallia cadde in un agguato prima ancora del termine dell’anno, e fu interamente distrutta dai Galli insieme col suo comandante Lucio Postumio, che era stato eletto console per l’anno seguente. (T. Mommsen)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Dopo la battaglia di Canne
La sera stessa della battaglia di Canne, il comandante dei cavalieri numidi, si era presentato ad Annibale: “Lasciami andare con la sola cavalleria” gli disse, “e fra cinque giorni tu banchetterai in Campidoglio”.
Ma il Cartaginese pensava altrimenti. Il suo esercito era piccolo, nè egli poteva facilmente colmarne i vuoti; non aveva macchine d’assedio, e Roma era cinta da potenti mura. E poi era certo che il solo suo apparire alle porte della città, anzicchè scoraggiare i Romani, li avrebbe eccitati ad agire.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Roma dopo Canne
Giunta in Roma la notizia di così grave sciagura, la città fu presa da tanto dolore che vennero interrotti gli annuali sacrifici di Cerere. I sacrifici non potevano essere celebrati da matrone in lutto e non c’era in tutta Roma una matrona che ne fosse esente! Per evitare che venissero trascurati gli altri sacrifici pubblici e privati, il Senato decretò che il lutto avesse termine dopo trenta giorni.
In tale occasione i Romani dettero prova di straordinaria forza d’animo e di grande amor patrio.
Furono arruolati i giovani dai 17 anni in su, furono chieste milizie agli alleati, secondo le convenzioni, furono prelevati dai tempi e dai portici gli antichi trofei tolti ai nemici per provvedere armi, dardi e scudi. Poichè mancavano gli uomini liberi, furono arruolati 8.000 schiavi, scelti tra i più valorosi.
La sconfitta era veramente più grave di tutte le precedenti e lo dimostra il fatto che gli alleati cominciarono a disperare della salvezza di Roma e passarono alle file nemiche.
Ne il lutto generale ne le defezioni degli alleati indussero mai i Romani a parlare di pace, ne prima del ritorno in patria del console superstite (Terenzio Varrone) ne dopo il suo ritorno. In tale occasione, anzi, i Romani andarono incontro al console, che pure era stato la causa principale della disfatta, e lo ringraziarono perchè non aveva disperato della Repubblica. (da Tito Livio)
Costanza dei Romani
Nell’ultima fase della lunga guerra contro Cartagine i Romani passarono di disfatta, ma non cedettero mai alla sorte avversa e al valore dei nemici. Le donne romane offrirono oro, argento, gioielli, per sostenere lo sforzo della patria in pericolo.
Ma perchè questa costanza, questa volontà di vincere ad ogni costo? I Romani erano devoti alla patria e non esitavano ad affrontare la morta per difenderla. I soldati cartaginesi erano invece in massima parte mercenari e combattevano per guadagno.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Scipione l’Africano
Annibale vinceva sempre, ma era come chiuso in gabbia in Italia. I Cartaginesi non potevano mandargli rinforzi perchè i Romani sorvegliavano il mare. Dopo ogni battaglia, Annibale aveva un numero minore di soldati, di armi, di cavalli. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione, erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine. Annibale fu richiamato in patria, ma a Zana subì la prima sconfitta, che segnò la fine della seconda guerra fra Roma e Cartagine. Questa volta i Romani, dopo aver vinto la guerra, vollero tutte le navi di Cartagine.
I Cartaginesi non potevano più commerciare attraverso il mare. Cartagine era ormai diventata una città senza importanza.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Scipione e gli elefanti
Publio Cornelio Scipione, nella battaglia di Zama, in Africa, vedendo i nemici dotati di elefanti, incolonnò i suoi soldati ordinando loro, quando avessero visto gli elefanti precipitarsi su di essi, di spostarsi in modo che gli animali si trovassero a percorrere una specie di corridoio. Così fu fatto: gli elefanti, giunti alle spalle dell’esercito romano, furono circondati e sopraffatti.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Zama
Annibale e Publio Scipione uscirono in campo con i loro eserciti e si prepararono alla battaglia: i Cartaginesi per la propria salvezza, i Romani per il dominio del Mediterraneo.
Scipione dispose le schiere del suo esercito in questo ordine: per primi gli astati e le loro insegne, a intervalli regolari; in seconda fila i principi; per ultimi i triari. Nell’ala sinistra schierò la cavalleria romana, in quella destra la cavalleria dei Numidi; quindi riempì gli intervalli della prima fila con le coorti di veliti, ordinando loro di accendere la zuffa e, qualora avessero dovuto cedere, di ritirarsi lungo la linea retta di intervallo, portandosi alle spalle dell’esercito.
Annibale schierò più di ottanta elefanti in prima fila, quindi i mercenari, circa 15.000, e dietro questi Cartaginesi e altri alleati africani. Assicurò poi le ali con la cavalleria.
Annibale diede ordine ai condottieri degli elefanti di attaccare, ma appena suonarono le trombe e i corni, alcuni elefanti, spaventati, indietreggiarono improvvisamente, creando un’indescrivibile confusione fra le schiere dei Cartaginesi. In quel momento la cavalleria romana attaccò, e le due falangi avanzarono, dapprima a passo lento e grave, poi emettendo alte grida e percuotenso gli scudi con le spade… Poichè entrambe le schiere erano uguali di numero, di valore e di armatura, la battaglia rimase a lungo indecisa e gli uomini morivano, ostinati, nello stesso luogo in cui combattevano… Infine la cavalleria aggirò Annibale e lo attaccò alle spalle, costringendo i Cartaginesi ad una precipitosa e disordinata ritirata.
In questa battaglia morirono oltre millecinquecento Romani e oltre ventimila Cartaginesi. (da Polibio)
Preghiera di Scipione
Dall’alto della sua nave, al cospetto delle sue truppe e del mare, il comandante volge al cielo la sua preghiera: “O dei e dee del mare e della terra, io chiedo a voi che ogni cosa da me fatta o che farò, sia propizia a me e al popolo di Roma, ai nostri amici, a tutti coloro che parlano latino, a tutti quelli che ci seguono attraverso il mare, con il cuore e col pensiero. Proteggeteci; concedeteci di ritornare vincitori nelle nostre case”.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il trionfo di Scipione l’Africano
Dopo la sua magnifica vittoria su Cartagine, il Senato accordò a Scipione l’onore del Trionfo.
Il generale salì su un carro dorato, vestito di una toga di porpora ricamata d’oro, con ricchi bracciali ai polsi, la testa cinta dall’alloro, e un ramo di alloro nella mano destra. Precedevano il carro i senatori, i trofei di guerra, i prigionieri incatenati, le insigne delle legioni vittoriose; lo seguiva tutto l’esercito, e ogni soldato teneva in mano un ramo d’alloro. Sul carro, in piedi dietro a Scipione, c’era uno schiavo che gli reggeva sulla testa una corona d’oro tempestata di gemme e che ripeteva continuamente queste parole: “Ricordati che sei un uomo”, Si ammoniva così il trionfatore di non insuperbire per tanti onori!
L’interminabile corteo sfilò fra ali acclamanti di popolo, mentre si cantavano inni di vittoria e si gettavano fiori.
Ultime parole di Scipione l’Africano
Scipione l’Africano, il vincitore della seconda guerra punica, venuto in sospetto ad alcuni suoi concittadini, sdegnosamente si ritrasse in una sua villa a Literno in Campania; passò il resto della vita intento agli studi, e prima di morire ordinò che sulla sua tomba si scrivessero queste amare parole: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”.
Morì in quell’anno stesso in cui il suo avversario Annibale moriva, esule, in Bitinia.
Morte di Annibale
Annibale, sino all’ultimo, non cessò di eccitare nemici contro Roma, fra cui Antioco; ma, vinto costui, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, in Asia Minore, sul Ponto Eusino. I Romani inviarono ambasciatori a Prusia perchè consegnasse Annibale nelle loro mani. Allora Annibale, vedendo chiusa ogni via di scampo, bevve il veleno dicendo: “Liberiamo il popolo romano da questo suo incessante timore”.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La terza guerra punica
Cartagine, vinta a Zama, era finita come potenza militare, ma ben presto rifiorì economicamente.
Essa rimaneva sempre lo sbocco principale dei prodotti africani; il suo porto era affollato di navi, i suoi frutteti, i vigneti, i campi erano tra i più lussureggianti del mondo.
Pur adempiendo scrupolosamente agli obblighi impostile dal trattato di pace, Cartagine sollevava sospetti e timori a Roma, espressi ripetutamente in Senato dall’ottantenne Catone il Censore (“Delenda est Carthago”, cioè “Bisogna distruggere Cartagine”).
L’occasione del conflitto fu offerta da Cartagine stessa, che stanca di subire le soverchierie di Massinissa, re della confinante Numidia, a un nuovo strappo di territorio gli mosse guerra, violando così le condizioni di pace dell’anno 201. I Romani allora sbarcarono in Africa, per punirla.
Sbigottiti, i Cartaginesi tentarono di placare il potente nemico, accettando tutte le sue condizioni: consegna di ostaggi e di tutte le armi e le navi da guerra. Ma, ottenuto ciò, i consoli intimarono ai Cartaginesi di sgomberare la città, la quale doveva essere distrutta; essi potevano costruirne un’altra, purchè non fortificata e distante dal mare almeno quindici miglia.
Il crudele comando provocò la disperata resistenza dei Cartaginesi, che difesero eroicamente, per due anni, la loro patria. Alla fine furono costretti ad arrendersi e Cartagine venne rasa al suolo. Sulle rovine della città i Romani sparsero del sale: ciò significava che essa non doveva più risorgere… e mai più risorse.
La luce di una grande civiltà si spegneva così nel Mediterraneo e si affermava sempre più quella di Roma.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Catone il Censore
Fra i Romani che maggiormente temevano il rifiorire di Cartagine c’era Catone il Censore. Costui diceva a tutti coloro con i quali parlava: “Cartagine deve essere distrutta”, ma i senatori non davano peso alle sue parole: pensavano infatti che Cartagine era lontana e non poteva dar noia.
Un giorno Catone capitò in Senato con un cesto di bellissimi fichi freschi. Invece di cominciare, secondo il suo solito, a dire: “Cartagine deve essere distrutta!”, si volse ai senatori e offrì quei frutti.
I senatori accettarono e mangiarono. Quando il cestino restò vuoto Catone, col suo miglior sorriso, domandò: “Erano buoni?”
Tutti risposero di sì: erano così freschi! Nella polpa rossa brillava persino una goccia zuccherina…
“Ebbene” dice Catone, facendosi improvvisamente serio, “ieri mattina pendevano ancora dall’albero, in un frutteto di Cartagine…”
I senatori si fecero pensosi: davvero Cartagine non è molto lontana da Roma… Se rialzasse la testa, sarebbe un guaio…
E ricordarono con angoscia Annibale quando scorrazzava per l’Italia.
Ricordarono con sgomento che, dopo Canne, accorsero sotto le armi anche giovinetti di tredici, quattordici anni, perchè gli uomini erano in gran parte morti.
Catone vide quei capi chini, quelle fronti corrucciate, e sorrise: finalmente aveva raggiunto il suo scopo; li aveva convinti.
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Marco Porcio Catone
Quando il venerando Catone entrò nella curia, i senatori si levarono in piedi. Egli salutò reverente il simulacro della Vittoria e si avviò al suo seggio. Procedeva a fatica per i suoi ottantaquattro anni e con la sinistra teneva sollevato un lembo della toga, come vi chiudesse dentro un rotolo, con qualche nuovo discorso.
Invece, grande fu lo stupore del Senato quando egli trasse fuori alcuni fichi. “Questi frutti” disse “sono ancora freschi, eppure vengono da Cartagine. Cartagine è a soli tre giorni di viaggio da Roma. Bisogna distruggere Cartagine”.
Il Senato, che era stato a lungo perplesso, deliberò allora di intraprendere la terza guerra punica.
L’oratoria tagliente di Catone risonava ogni giorno in Senato e nel Foro: il popolo ripeteva i suoi motti scultorei e le sue amare ironie. Eletto censore, aveva dedicato i poteri inerenti alla carica a reprimere il lusso e la corruzione. La già esistente legge Oppia, che limitava appunto lo sfarzo delle matrone, era stata abolita; Catone non solo la ripristinò, ma la inasprì con tasse esorbitanti sulle vesti e suoi cocchi. Espulse dal Senato sette senatori che giudicò indegni di appartenervi.
Nella grande rassegna dei cavalieri, tolse a Lucio Scipione il cavallo troppo riccamente bardato.
Faceva guerra spietata a tutti gli abusi, e si procurò molte inimicizie. Fu accusato innanzi al popolo quarantaquattro volte, e sempre uscì assolto, meno una volta sola in cui dovette pagare una multa.
Quando, nella magra altissima statura, tanto indurito nelle fatiche da parere quasi legnoso, vestito semplicemente, passava riguardando con gli occhi acuti e bigi sotto la chioma rossa, tremavano tutti. Anima ferrea e tenace, fattasi un’opinione, non la mutava più.
Ora si era convinto che Roma non poteva avere un avvenire finchè il Mediterraneo fosse dominato da una potenza straniera e rivale. Perciò, di qualunque argomento parlasse, concludeva sempre il suo discorso con l’immancabile ritornello: “E poi bisogna distruggere Cartagine”.
Cartagine aveva cacciato Annibale, che si era spento lontano dalla patria; ma a lui erano sopravvissuti i suoi saggi ordinamenti. La potenza punica, prostrata dalle armi romane a Zama, era pur rifiorita per virtù dei commerci; e i navigatori cartaginesi avevano di nuovo rannodato con i traffici tutti i ricchi mercati d’Oriente.
Sotto l’assillo di Catone, che usava l’eloquenza allo stesso modo del pungolo, il Senato romano finì col proeccuparsi di così rapida minacciosa resurrezione; la terza guerra punica sarebbe stata decretata. (G. Brigante Colonna)
Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Distruzione di Cartagine
La battaglia feroce, incessante tra il fumo, le fiamme e il chiarore sanguinoso delle fiaccole durò sei giorni. Squadre di zappatori con accette e ramponi precedevano i manipoli d’assalto, spianando le rovine e seppellendo sotto di queste i cadaveri, i feriti, i caduti. Scipione non prese mai sonno nè riposo; combattendo come semplice soldato, sempre presente là dove poteva esserci bisogno della sua azione e della sua parola.
All’alba del settimo giorno la resistenza cartaginese era schiacciata, la battaglia finita, e una lugubre ambasceria di cittadini si recò dal console ad offrire la resa della superstite popolazione, senz’altra condizione che quella di aver salva la vita. Scipione acconsentì, facendo un’unica eccezione per i disertori romani. E allora, mentre le ultime superstiti rovine di quella che era stata Cartagine bruciavano lentamente e si rovesciavano al suolo, crosciando e crepitando, i vincitori videro sfilare dinanzi a sè circa 25.000 donne ed altrettanti uomini, che si recavano prigionieri verso il campo romano, destinati a finire la vita come schiavi in tutte le contrade del mondo antico.
Vi mancarono Asdrubale e la sua famiglia e circa 900 disertori, i quali, si erano trincerati nell’atrio del tempio di Esculapio decisi a resistere fino all’estremo. Fu intorno a questo antico, superbo edificio, che si accanì nei giorni successivi la furia degli assalitori. Alla fine anche l’orgoglio e la ferocia del generale punico caddero; e mentre tutti i suoi compagni, fatti irriconoscibili dalla stanchezza e dalla sofferenza, si rifugiavano nel tempio, e alcuni salivano sul tetto, decisi a disputare fino in fondo la vita, egli, distaccatosi dagli altri, andò a gettarsi ai piedi di Scipione, invocando pietà. Coloro che ancora si battevano, appiccarono con le loro stessa mani il fuoco all’edificio e perirono tutti sotto le sue rovine.
Così finiva Cartagine. Dalla sua tenda Scipione contemplò fra nugoli di polvere quell’estremo angolo della città punica che si sfasciava; pensava a Roma, alla sua patria, forse destinata a una non meno gigantesca rovina. (C. Barbagallo)
Mediterraneo, mare nostro
Nello stesso anno della distruzione di Cartagine, Roma sottometteva anche la Grecia. Ebbe così il predominio sul Mar Mediterraneo. I Romani, guardando questo mare, potevano ormai dire orgogliosamente: “Mediterraneo, mare nostro”.
L’esercito romano
Chi combatteva. Tutti i cittadini romani, sia patrizi che plebei, dovevano prestare il servizio militare. La chiamata alle armi si faceva solo in caso di guerra, finita la quale i soldati tornavano a casa. Erano chiamati alle armi gli uomini dai diciassette ai sessant’anni. I soldati non solo non erano pagati, ma dovevano equipaggiarsi a loro spese. Perciò i più ricchi formavano la cavalleria, gli altri la fanteria.
Il generale Caio Mario, quando riorganizzò l’esercito, stabilì invece che i soldati fossero equipaggiati a spese dello stato e ricevessero una paga.
Come era organizzato l’esercito. Normalmente si formavano due eserciti, uno per ogni console, ed ogni esercito era composto da un dato numero di legioni, che variava secondo il bisogno. Ogni legione aveva 4.200 fanti e 3.000 cavalieri: la legione era divisa in 10 coorti, ogni coorte in 3 manipoli, ogni manipolo in due centurie.
A capo di tutto l’esercito era un console, assistito da due o più legati, specie di aiutanti di campo; la legione era comandata da un tribuno militare; il manipolo da un centurione maggiore; la centuria da un centurione minore.
Come si schierava l’esercito sul campo di battaglia. L’esercito romano si schierava a battaglia nel seguente modo: nella prima linea c’erano gli astati, cioè i fanti armati di lancia, che erano scelti fra i più giovani. Nella seconda linea stavano i principi, cioè i fanti dotati di armi pesanti. Nella terza linea i triari, cioè i fanti anziani.
Le tre linee erano disposte a scacchiera, in modo che i vuoti della prima linea corrispondessero agli spazi occupati dalla seconda e i vuoti della seconda occupati dalla terza. Ciò serviva per evitare la rottura dello schieramento, qualora i soldati delle prime linee fossero stati costretti ad indietreggiare.
La cavalleria era usata per l’esplorazione e per l’inseguimento dei nemici in fuga.
Le armi dei legionari. Le principali armi difensive erano la galea, elmo di pelle; lo scudo, di legno e di pelle che il soldato imbracciava al lato sinistro; la lorica o corazza, formata di lamine d’acciaio, disposte a scaglie, che difendevano le spalle e il petto; gli schinieri, gambali. Sotto la corazza, il legionario vestiva una corta tunica.
Le principali armi di offesa erano il pilo o giavellotto, con l’asta e la punta di ferro per combattere a distanza; il gladio e una specie di daga, spada corta e piatta che si adoperava nella lotta corpo a corpo.
Le macchine militari. Molte erano le macchine militari usate in guerra dai Romani. La torre permetteva ai soldati di salire, difesi e coperti, fino all’altezza delle mura nemiche e di muovere decisamente all’attacco di esse. La testuggine era una specie di capanna coperta da pelli di animali: così difesi dalle frecce che venivano scagliate dalle mura nemiche, i soldati potevano portarsi fin sotto le mura stesse, per attaccarle poi con l’ariete. La catapulta serviva per lanciare pietre dal basso verso l’alto, a mezzo di una fune che veniva tesa e lasciata andare di scatto. Qualche volta contro il nemico venivano lanciate anche frecce incendiarie. L’ariete era costituito da una robusta trave che terminava con un massiccio pezzo di ferro, generalmente a forma di testa di ariete; la trave, sospesa ad una impalcatura, serviva ad aprire brecce nelle mura nemiche.
L’accampamento. L’accampamento romano aveva forma quadrata, ed era circondato da un terrapieno, da una palizzata e da un fossato di circa 3 m di profondità e largo 4 m. Aveva quattro porte: quella che si trovava di fronte all’accampamento nemico si chiamava pretoria; quella della parte opposta, decumana. La tenda del comandante sorgeva vicino alla porta decumana, affiancata dalla tenda dei questori, dei tribuni e dei luogotenenti. Le tende dei soldati erano allineate dentro l’accampamento ed erano di cuoio o di tela.
La disciplina dell’esercito. Punizioni e premi.
Severa era la disciplina. Il comandante aveva diritto di vita e di morte su ogni soldato. Con la morte venivano punite le colpe più gravi, come l’insubordinazione. Altre pene erano la flagellazione con le verghe, la degradazione e, per colpe collettive, la decimazione. Se una legione fuggiva davanti al nemico, era decimata, vale a dire, su ogni dieci soldati si estraeva a sorte un uomo, e quelli designati dalla sorte erano decapitati.
Molte le ricompense che si davano ai valorosi: corone, medaglie. La suprema ricompensa a un console, dopo una grande vittoria era il trionfo, decretato dal Senato. Quando la vittoria era meno grande, si accordava al generale vincitore un trionfo meno solenne, detto ovazione, perchè, in luogo del toro si sacrificava agli dei una pecora (ovis).
Più tardi i Romani eternarono le imprese dei loro generali con monumenti, colonnne ed archi trionfali.
Ogni soldato portava il proprio bagaglio personale: gli altri bagagli erano caricati sui carri. L’esercito, in marcia, durante le tappe costruiva l’accampamento (castra).
La paga dei soldati
Lo stipendium istituito nel 406 aC era pagato anno per anno, e al tempo di Pobilio arrivava a 2 oboli al giorno per un soldato di fanteria. I centurioni avevano il doppio, e i cavalieri il triplo di questa somma.
Non si conosce quale fosse lo stipendio assegnato agli ufficiali superiori; sappiamo di certo che i tribuni non erano pagati. Le spese del vitto e dell’armatura erano tolte dalla paga.
La maggior parte della preda di guerra era distribuita tra i soldati e gli ufficiali; ed ognuno ne riceve una parte proporzionata allo stipendio. (G. Decia)
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