Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Nasce Roma

Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.

I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.

Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.

I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.

Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.

Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.

Secondo la leggenda

Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.

Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.

Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di  nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.

Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.

Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.

Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.

La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.

21 aprile: Natale di Roma

In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città.
Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma.
Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.

Nascita di Roma

Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.

Roma antica

Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie.
Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)

Roma

Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.

Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.

Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.

I Latini

Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.

Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.

La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.

Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.

Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)

Romolo e Remo

Non  lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.

Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.

Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.

All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…

“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.

Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”

“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.

“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”

E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.

I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)

La fondazione di Roma

Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.

“Gli dei accettano i sacrifici!”

“Proteggeranno la città nuova!”

“La renderanno grande e forte!”

“Vogliamo che si chiami Roma!”

“Roma durerà in eterno!”

“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”

Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”

Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)

I patrizi, i plebei, gli schiavi

Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.

Il governo di Romolo

Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.

Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.

Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea,  figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.

Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.

Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.

Numa Pompilio

Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.

Tullo Ostilio

Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine,  ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.

Anco Marzio

Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.

Tarquinio Prisco

Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.

Servio Tullio

Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.

Lucio Tarquinio

Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.

Roma al tempo dei re

Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.

I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.

Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.

Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.

La religione romana

I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.

Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.

Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.

Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.

A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.

Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.

I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.

Un sacrificio agli dei

Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.

Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.

Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.

Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.

Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.

Il territorio su cui sorse Roma

L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.

Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.

Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.

Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.

Fondazione di una città

Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.

Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.

Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.

La tradizione sull’età regia (753-510 aC)

Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente  furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.

Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.

Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.

Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.

Il re mite

Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!

Romolo Quirino

Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.

Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)

Monelli dell’antica Roma

– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.

– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.

Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.

– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –

Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al  maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –

Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.

– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – .  Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.

Una gran risata accolse quel gesto.

Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.

Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!

Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere.  Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.

– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.

– Buona idea! – esclamò Aulo. – Ti ringrazio, mio buon pedagogo -.

Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.

Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –

– Giuralo –

– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –

Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!

– Ahi! – strillò Terenzio

– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.

– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.

– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.

– Allora il carretto è mio –

– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –

– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.

– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –

Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)

Le oche dei tre Romani

Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli  schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.

Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.

In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere.  Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.

Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.

I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?

I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-

Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –

– Dodici – risposero in coro i tre clienti.

– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.

I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.

Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)

I primi quattro re

Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.

Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.

Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.

Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).

I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.

Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.

La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.

Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di  guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.

Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.

Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini.  Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.

Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.

Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.

L’età dei Tarquini e la fine della monarchia

Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.

Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.

La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.

Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.

Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il  Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.

Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.

A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.

Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.

Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili  condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.

I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).

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