MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.

I conventi
Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze.
Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione.
In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui.
Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi.
Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici.
Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.

Notizie da ricordare
Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio.
Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora.
In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione.
Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario
Come e perchè sorsero i conventi?
Quali opere fecero i monaci?
Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura?
Chi era San Benedetto?
Quale regola dette ai monaci?

La vita nei conventi
Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore.
Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé  a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando.
Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita.
Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati.
In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila
Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.

Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici.
Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto.
Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona.
Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”.
A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la  morte sul campo di battaglia.
Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”.
Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato.
“Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare.  Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”.
Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento.
Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare.
Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane.
Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento.
“Una crosta di pane, per carità!”
“Una tazza di olio, in nome di Dio!”
Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola.
Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento.
I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.

Il monachesimo
Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro.
Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti.
In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi  sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto.
Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi.
A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi.
I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci.
Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.

Visita a un monastero di san Benedetto
Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una  bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano.
Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)

San Benedetto
Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo.
La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì  e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco.
Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile.
Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.

Torna il benessere attorno ai monasteri
San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia.
Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico.
I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche.
Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.

La regola d’oro: prega e lavora
Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro.
Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo.
Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero.
C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza.
Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.

Il lavoro giornaliero
L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)

La vita in un monastero benedettino
Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino?
Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro.
Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre.
Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta.
Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi.
Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza.
Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.

Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto
Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale.
Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate.
L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro.
(W. Durant)

Recita: In un monastero benedettino
Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero).
Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica.
Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto.
(Passa vicino un fanciullo)
Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli?
Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui.
Paolo: Eccomi, padre.
Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro.
Paolo: Come ti chiami?
Basilio: Mi chiamo Basilio.
Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo.
Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere?
Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto.
Basilio: Anche in terre lontane?
Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice!
Basilio: E allora?
Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare.
Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri?
Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi.
Basilio: E dove li trovano i frati?
Paolo: Li scrivono loro stessi.
Basilio: Quanto lavoro!
Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via.
(R. Botticelli)

La Chiesa nell’epoca barbarica
I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà.
Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma.  Davanti al  vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare.
Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote.  D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato.
Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.

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