John Cage studia pianoforte da maestri privati da ragazzino. Studia la musica dell’800 e si interessa alla tecnica del virtuosismo pianistico.
Con il passare del tempo diventa sempre più sperimentale, usa la tecnica seriale, sia di tipo dodecafonico, sia con delle serie da lui stabilite, ad esempio con una serie basata su 25 note.
Nel 1940 gli viene commissionata una musica per il balletto Bacchanale. Qui per la prima volta sperimenta la tecnica del “piano preparato”, piazzando una piastra di metallo sulle corde, così da modificare il timbro dello strumento e produrre suoni percussivi.

Nei pezzi per piano preparato si inseriscono tra le corde del pianoforte svariati oggetti, di modo che l’esecutore produca suoni che non sono del tutto volontari.

È uno studio sulla casualità del timbro: il compositore indica la preparazione dello strumento ma non decide completamente il risultato sonoro della sua opera. Si generano suoni che suggeriscono il suono prodotto da un’orchestra di percussioni. È una provocazione nei riguardi dell’inviolabilità degli strumenti classici. Il pianoforte, strumento romantico per eccellenza, viene violentato con oggetti di uso quotidiano, la tradizione europea sbeffeggiata.

Please Play or The Mother, the Father or the Family, 1989 Installazione: pianoforte e tessuti. Fondazione Mudima, Milano.

Cage basa la costruzione musicale sulla struttura ritmica, sulla successione delle durate. Esplora anche il campo dei rumori. Prova nuovi tipi di strumenti, soprattutto percussioni. Conduce esperimenti con la musica elettronica. Utilizza formule matematiche per strutturare la composizione, ad esempio i rapporti basati sulla “sezione aurea” (1 : 1,618).
Tra il 1946 e il 1948 scrive il suo lavoro per piano preparato più acclamato: Sonatas and interludes. Sono venti pezzi, sedici sonate e quattro interludi, in cui Cage porta ad un livello di maggiore complessità la sua tecnica basata sulle proporzioni ritmiche: la struttura di ogni pezzo è definita da una serie di numeri, e allo stesso modo anche le parti di ogni pezzo sono definite matematicamente.

Il processo compositivo è basato largamente sull’improvvisazione e sull’esplorazione delle varie possibilità: Cage ha scritto di averlo composto suonando il piano, sentendo le differenze e facendo una scelta. È il pezzo per piano preparato in cui la preparazione dello strumento è più complessa: ci sono 45 note preparate attraverso l’inserimento di bulloni, pezzi di gomma, pezzi di plastica e noci.
Nella seconda metà degli anni ’40 si interessa alle culture orientali: alla musica e alla filosofia indiana e al Buddhismo Zen.
Lo Zen diventa un’ impostazione filosofica con cui ridiscutere il concetto di musica. La musica viene considerata affermazione della vita, un modo per vivere veramente la nostra vita. Il concetto fondamentale è la mancanza di fini, di scopi, di intenzioni: bisogna meditare sul vuoto.

In questo periodo visita la camera anecoica dell’università di Harvard, una stanza insonorizzata in cui poter “ascoltare il silenzio”. Cage invece riesce a sentire dei suoni, i suoni del suo corpo: il battito del cuore, il sangue in circolazione. Ciò che ne ricava è la consapevolezza dell’impossibilità del silenzio assoluto.
Il silenzio è una condizione del suono, è materia sonora: sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia  l’entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione. Il silenzio è un mezzo espressivo, è pieno di potenziale significato.
Nel 1952, anche in seguito all’esperienza nella camera anecoica, compone 4’33”, per qualsiasi strumento.

L’opera consiste nel non suonare lo strumento. La sostanza esecutiva dell’opera è un’operazione teatrale più che musicale.Il titolo dell’opera (4 minuti e 33 secondi: vale a dire 273 secondi) è forse un richiamo alla temperatura dello zero assoluto (–273,15 °C).

John Cage

 

Il significato del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione. La rinuncia alla centralità dell’uomo. Il silenzio non esiste, c’è sempre il suono. Il suono del proprio corpo, i suoni dell’ambiente circostante, i rumori interni ed esterni alla sala da concerto, il mormorio del pubblico se ci si trova in un teatro, il fruscio degli alberi se si è in aperta campagna, il rumore delle auto in mezzo al traffico.

Cage vuole condurre all’ascolto dell’ambiente in cui si vive, all’ascolto del mondo. È un’apertura totale nei confronti del sonoro. Una rivoluzione estetica: è la dimostrazione che ogni suono può essere musica. Io decido che ciò che ascolto è musica. È l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha cambiato l’atteggiamento nei confronti del sonoro, ha messo in discussione i fondamenti della percezione.
Cage ha detto: “Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore a 4’33” come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”.

Uno dei modelli di 4’33” è Robert Rauschenberg, il pittore amico di Cage che nel 1951 produsse una serie di quadri bianchi, che  cambiano a seconda delle condizioni di luce dell’ambiente di esposizione.

La musica aleatoria crea un problema a livello critico. Come si può criticare un’opera che non è il frutto del lavoro intenzionale di un autore? Si conclude che il lavoro di Cage è un lavoro filosofico, che la sua importanza sta nelle idee, non nel risultato musicale di queste idee. Si pensa che i risultati di queste idee siano uguali l’uno all’altro dal punto di vista stilistico, come delle serie di numeri presi a caso. Ma Cage è un compositore e ha una sensibilità, uno stile musicale, che cambia con gli anni.
Cage si pone delle domande quando decide di comporre con tecniche casuali e se il risultato, la risposta che riceve da queste domande non lo soddisfa, cambia le domande.
Il silenzio è una condizione del suono, anzi, è il più sublime dei suoni. E’ materia sonora a tutti gli effetti, sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l’entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione, può addirittura invadere il linguaggio.

In una lettera datata 2 ottobre 1893, Claude Debussy scriveva un po’ timidamente: “Mi sono servito di un mezzo che mi sembra assai raro, del tutto spontaneamente; cioè del silenzio, come mezzo espressivo e forse come modo per fare risultare l’espressione di una frase”.
Il silenzio, il non detto, sono dunque pieni di potenziale significato, e non soltanto in musica. Purtroppo però, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, il silenzio viene utilizzato assai raramente, perché ha un valore negativo e viene generalmente associato alla morte. I suoni, i rumori, ci ricordano invece di non essere soli, di essere vivi: rimuoviamo la morte facendoci sommergere dal rumore. Abbiamo paura della mancanza di suoni così come abbiamo paura della mancanza di vita.
Per fortuna però, periodicamente, nel corso del Novecento da Claude Debussy arrivando fino a Salvatore Sciarrino (Cantare in silenzio), e senza dimenticare naturalmente Gian Francesco Malipiero (Le pause del silenzio del 1917), Helmut Oehring (figlio di genitori sordomuti, che, con la sua Dokume ntation I, ha scelto di rappresentate musicalmente la dimensione comunicativa del mondo silenzioso dei sordomuti), Arvo Paert (la sua poetica del Tintinnabulum: attesa solitaria di fronte al silenzio), la musica si è spinta, con motivazioni estetiche spesso diverse, fino ai limiti del silenzio.
Mai prima di John Cage però la “musica silenziosa” aveva osato tanto. 4′.33″ racchiude in sé molti aspetti dell’estetica cageana, ed egli stesso lo definì il suo pezzo migliore. Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è più che legittima.

Basta indossare un abito da concerto (giusto per entrare meglio nella parte dell’esecutore) e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. Durante il primo movimento della leggendaria prima esecuzione assoluta di 4.33 si sentiva il vento che spirava, nel secondo la pioggia, e nel terzo il pubblico che parlottava o si alzava indignato per andarsene. “Sentivo e speravo diceva Cage “di poter condurre altre persone alla consapevolezza che i suoni dell’ambiente in cui vivono rappresentano una musica molto più  interessante rispetto a quella che potrebbero  ascoltare a un concerto”. Nessuno, o quasi, colse il significato allora. Eppure, con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l’atteggiamento nei confronti del sonoro: è l’intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un’altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”. Un virtuoso “rumoroso” come Yehudi Menuhin, quando era presidente dell’International Music Council dell’Unesco, propose addirittura che la giornata Mondiale della Musica fosse celebrata in futuro con un minuto di silenzio.
Una rivoluzione estetica, quella cageana, che è andata oltre, e che ha messo in discussione gli stessi fondamenti della percezione, nel porre la musica anche in intimo contatto con tutte le arti, senza che ciò venisse motivato da alcun genere di idealismo. La poetica di Cage si può inserire in quel filone dell’arte figurativa dell’astrattismo gestuale di Pollock, Kline, De Kooning.

Tutto ciò, da diversi punti di vista dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage:
“Per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”, una rinuncia alla centralità dell’Uomo, il che implica l’eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una regressione e una rinascita all’innocenza.
Il silenzio (“i suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del silenzio che li separa”),
la filosofia zen,
l’identificazione dell’arte con la vita (“la mia opera è intesa come dimostrazione della vita”),
il ricorso alle tecniche aleatorie e casuali (con l’antico metodo cinese dell’I-Ching) volte a eliminare l’aspetto soggettivo del processo compositivo,
l’apertura totale nei confronti del sonoro (“ora non ho più bisogno di un pianoforte: ho la 6 Avenue con tutti i suoi suoni”),
la passione per Marcel Duchamp (“gli scacchi non erano altro che un pretesto per stare con lui”),
per i funghi (partecipò anche a un quiz di Mike Bongiorno),
per l’astronomia (per la stesura della partitura di Atlas Eclipticalis, ha usato un atlante astronomico, traducendo la posizione delle stelle in note),
per la Finnegan’s Wake di James Joyce,
ne fanno una delle figure creative più originali ed aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena trascorso.

Nel 1958 John Cage compone “Aria”, per una voce di qualsiasi estensione. La dedica di copertina è per Cathy Berberian, forse la più dotata delle cantanti del ventesimo secolo. Di fatto questo brano è divenuto una tappa obbligata per qualsiasi cantante che si interessi di musica contemporanea. Ciò che subito coglie l’attenzione di un osservatore è la particolare e al contempo semplice notazione musicale rintracciabile in partitura: essa consiste essenzialmente in una sequenza di linee curve che descrivono, approssimativamente, l’andamento di pitch richiesto per l’emissione del performer.

Trattiamo, si badi, di un’altezza relativa: la posizione della curva sul foglio non sottolinea una relazione frequenziale con le curve precedenti o successive ma indica semplicemente un “cambio di stato” ed un tempo (il tempo scorre idealmente da sinistra verso destra).
A questo si aggiunga che attraverso l’utilizzo di differenti colori posti sulle curve si prescrive all’interprete un cambio di timbro. I diversi timbri non vengono predeterminati da Cage in partitura ma decisi dal performer durante la preparazione del pezzo.
Negli ultimi anni, tra il 1987 e il 1992, Cage compone le sue opere più astratte, intitolate semplicemente con dei numeri che rappresentano il numero degli esecutori. Seventy-Four per orchestra, del 1992, è composta per i 74 musicisti della American Composers Orchestra. La parte di ogni esecutore è composta di quattordici suoni isolati.
Cage indica un lasso di tempo in cui il musicista ha la libertà di decidere quando fare iniziare il suo suono e un lasso di tempo in cui concluderlo. Poiché le due misure temporali si intersecano, il musicista può decidere di fare durare il suono un certo tempo, oppure può decidere di dare una durata nulla a quel suono. Il volume e gli effetti sugli strumenti sono lasciati alla scelta degli esecutori. Anche qui il direttore è sostituito da un orologio.

In Italia Cage fu vicino al movimento artistico Gruppo 63, nato con l’idea di entrare nelle strutture della cultura italiana per metterle in mano di gente disposta a portare fino in fondo un movimento intimamente legato all’Europa. Voleva promuovere in modo policentrico l’emergenza del nuovo. Così Umberto Eco parla di John Cage (in Il gruppo 63 quarant’anni dopo”):
C’era alla Rai di Milano lo Studio di Fonologia musicale, diretto da Luciano Berio e Bruno Maderna, dove era arrivato anche John Cage. Le sue partiture (a metà tra arte visiva e insulto alla musica) erano state pubblicate sull'”Almanacco Bompiani 1962″ dedicato alle applicazioni dei calcolatori elettronici alle arti, e vi appariva la prima poesia composta da un computer, il Tape Mark I di Nanni Balestrini. (per leggere Tape Mark I puoi seguire il link, che ti porta a orbitfiles, sotto alla pubblicità clicca download e si apre l’ebook  gratuito: http://www.orbitfiles.com/download/id833537457.html ).
Cage aveva composto a Milano il suo Fontana Mix, ma nessuno ricorda perchè si chiamasse così. Cage era stato messo a pensione presso una signora Fontana, era un bellissimo uomo, la signora Fontana era molto più matura di lui e cercava dei pretesti per possederlo in fondo al corridoio.

Cage, che notoriamente aveva tutt’altre tendenze, resisteva stoicamente. Alla fine aveva intitolato la sua composizione alla signora Fontana. Poi, rimasto senza un soldo, grazie a Berio era approdato a Lascia e raddoppia come esperto sui funghi, eseguendo sul palcoscenco improbabili concerti per frullino, radio e altri elettrodomestici, mentre Mike Bongiorno domandava se quello era futurismo. Si stavano creando misteriose connessioni tra avanguardia e comunicazioni di massa, e molto prima della Pop art.”

Purtroppo il video di Cage con Mike Bongiorno è introvabile, (in rete ci sono parecchi forum impegnati nella ricerca), però si trova un “surrogato”: il video di una sua partecipazione due anni dopo  (1960) al  quiz televisivo americano “I’ve got a secret”, dove Cage esegue il pezzo Water walk.

Cage, in qualità di esperto di funghi, vinse la puntata di Lascia o raddoppia portando a casa 5 milioni di lire. Durante lo spettacolo si esibì in un concerto per caffettiere, sotto gli occhi sbigottiti del presentatore e del pubblico italiano. Memorabile il dialogo che ci fu tra Mike Bongiorno e Cage quando questi si congedò, vittorioso. Le parole di Bongiorno ci restituiscono la difficoltà nell’approcciare la musica contemporanea.
M.B.: “Bravissimo, bravo bravo bravo bravo. Bravo bravissimo, bravo Cage. Beh, il signor Cage ci ha dimostrato indubbiamente che se ne intendeva di funghi… quindi non è stato solo un personaggio che è venuto su questo palcoscenico per fare delle esibizioni strambe di musica strambissima, quindi è veramente un personaggio preparato. Lo sapevo perché mi ricordo che ci aveva detto che abitava nei boschetti nelle vicinanze di New York e che tutti i giorni andava a fare passeggiate e raccogliere funghi”.
J.C.: “Un ringraziamento a… funghi, e alla RAI e a tutti genti d’Italia”.
M.B.: “A tutta la gente d’Italia. Bravo signor Cage arrivederci e buon viaggio, torna in America o resta qui?”.
J.C.: “Mia musica resta”.
M.B.: “Ah, lei va via e la sua musica resta qui, ma era meglio il contrario: che la sua musica andasse via e lei restasse qui”. (fonte wikipedia).

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