Il chiodo di Sant’Ambrogio: leggenda della Lombardia per bambini della scuola primaria, per la lettura e il riassunto.

Un bel giorno sant’Ambrogio, vescovo di Milano, venne chiamato a Roma dal Papa. Arriva dunque la lettera:  sant’Ambrogio la apre e legge, e vede che non c’è tempo da perdere: il Papa ha da parlargli d’urgenza.

L’indomani mattina subito, di buonissima ora che in giro suonavano le prime avemarie,  sant’Ambrogio si alza, si veste da pellegrino, mette la testa in sacrestia e dice al sagrestano: “Suona pure il primo segno della messa, che io vado un momentino a Roma a parlare col Papa; gli altri segni dalli a suo tempo che, per la solita ora, io sono qui di ritorno”.

Ripone il breviario in scarsella, salta in groppa alla mula e via per Roma, pregando il cielo che gliela mandi buona. Fosse l’aria sottile di quel mattino che metteva le ali ad ogni cosa, o non so che diamine fosse, la mula andava come il vento quando ha fretta.

Sicché, in un batter d’occhio, arriva a Roma. Naturalmente a quell’ora i romani erano ancora tutti a letto che russavano. Ambrogio va sull’uscio della casa del Papa, e giù una bella scampanellata che tutte le sale ne squillarono a lungo.

Di lì a un po’ un vecchio servitore viene ad aprire borbottando: “Son queste l’ore di disturbare Sua Santità?”

Calmo, Ambrogio gli mostra il rotolo della pergamena papale con tanto di espresso, e aggiunge: “Fate il piacere di dire al Papa che faccia presto, perchè io ho premura di tornare a Milano per dir messa”. E intanto si accomoda nella sala d’aspetto.

Il Papa sente la notizia, si alza, si lava la faccia alla meglio, poi va in sala d’aspetto e saluta l’ospite: “Buon giorno, Ambrogio”.

“Buongiorno, Santità”.

“Ho una ramanzina da farti”

“Son qui a prenderla” fa Ambrogio, lisciandosi la bella barba d’oro, simile allo sciame d’api. E poichè lì dentro faceva caldo, si levò il mantello, ma invece di attaccarlo a uno dei cavicchi d’argento che erano lì apposta, lo mise a cavallo di un raggio di sole che entrava dalla finestra.

Il Papa guarda quella faccenda, un po’ stupito. Che diavolo d’uomo era costui? L’aveva chiamato per fargli una ramanzina e adesso gli vede far cose che, se non fanno la santità, però la dimostrano; e quasi quasi non trovava il coraggio di incominciare.

Ambrogio, vedendo che andava alla lunga: “Fate presto, Santità!” gli dice con quell’aria sbrigativa propria dei santi che sanno di essere sul sicuro, qualunque cosa dicano o facciano, “Fate presto, perchè io sento già suonare il secondo segno della messa al mio paese” (che era poi Milano).

A quel parlare il Papa lo guarda con un più attento stupore: “Cos’hai detto? Che senti le campane di Milano?”

“Sì, Santità, mettete il vostro piede qui sul mio e sentirete anche voi”.

Il Papa allunga la sua pantofola vicino alla povera scarpa di Ambrogio e, mirabile cosa! anche lui sente suonare le campane di Milano. Allora entrò in sospetto anche più forte di essere veramente davanti a un santo. Tuttavia si ricordò che il Papa è sempre il Papa, cioè il superiore anche dei santi e ha il dovere di rimbrottarli quando è il caso. Sicché cominciò a parlare e gli diede il fatto suo.

Sant’Ambrogio ascoltò quella parlata fino alla fine, in umiltà grande e in silenzio, lisciandosi di tratto in tratto la bella barba d’oro. Finito che ebbe il Papa di parlare, Ambrogio gli fa: “Va bene. Nient’altro?”

“Nient’altro.”

“Allora buongiorno, Santità”

“Buongiorno, Ambrogio”

E Ambrogio scende in fretta le scale, dà la buona mano al servitore che gli aveva custodita la mula, vi monta in sella e via come una spia.

E’ a un chilometro appena fuori di città, che la mula perde un ferro e non c’è più verso di farla correre. Bisogna metterglielo, dunque.

Ambrogio scende, entra nella bottega di un fabbro che era lì a un tiro di sasso e lo prega di ferrargli la mula, raccomandandosi di mettere il ferro a rovescio, sì che le impronte siano verso Roma. Ora, mentre il fabbro faceva il suo mestiere, Ambrogio guarda dentro una cassetta piena di ferri vecchi e ci vede un chiodo tutto bistorto, un chiodo da cantiere. Lo prende in mano e chiede al fabbro: “Me lo cedi?”

“Portalo pure via!” dice il fabbro.

“A che prezzo?”

“Portalo via e non seccarmi, che te lo do proprio per ferro rotto”.

Ma Ambrogio vuole pagarlo ad ogni costo. Lo butta sulla bilancia, lo pesa, e tanto pesava il chiodo, tanto gli corrisponde in oro. Ambrogio salta in sella, e via al galoppo. Aveva fatto sì e no cinquanta passi, che tutte le campane di Roma, din don dan, din don dan, si mettono a suonare a distesa disperatamente come quando c’è il giubileo, quasi a salutare la partenza del chiodo.

Fra i romani subito nacque gran rumore, e tutti si fecero agli usci e alle finestre a domandare che diamine ci fosse. I più vicini a San Pietro si spinsero fin sotto le finestre del Papa: il quale, anche lui, in questa faccenda, ne sapeva meno degli altri. Però, subito dopo, si ricordò di Ambrogio e disse ai più vicini: “Non è un quarto d’ora che è uscito da Roma Ambrogio da Milano; è certo lui che ha sollevato questo putiferio. Ne ha fatte di stranezze, anche in casa mia; corretegli dietro e raggiungetelo, che è sulla strada di Milano a dorso di una mula bianca.

Una dozzina di quei romani più scalmanati montano in groppa a certi sauri del Papa e via al galoppo per la strada di Milano. Passano innanzi alla bottega del fabbro e gli chiedono: “Avete visto passare un uomo così e così?”

“Altro che se l’ho visto!” risponde il fabbro. “Gli ho ferrata la mula, e poi ha voluto portar via un vecchio chiodo bistorto, pagandomelo, ad ogni  costo, a peso d’oro!.”

“Qui c’è qualche miracolo in giro” fa il più furbo di quelli; e via dietro all’uomo del miracolo, così rapidamente che i cavalli non facevano in tempo a toccar terra. Galoppa e galoppa, lo raggiungono a Milano, e precisamente vicino a Porta Romana. Lo fermano e gli chiedono: “Tu hai portato via un chiodo così e così?”

“Sì” fa Ambrogio un po’ seccato.

“Per questo a Roma  si son mosse a suonare tutte le campane. Segno è che esso è un chiodo prezioso”.

“Non ne so nulla io” rispose Ambrogio, “Piuttosto, lasciatemi andare che ho da dir messa e sento suonare già l’ultimo segno”.

“Ma è un chiodo prezioso” insistono i Romani, “Portalo subito indietro, che Roma lo vuole”.

“No, no” fa Sant’Ambrogio “Io l’ho ben pagato al suo padrone, e adesso è mio”.

Sì, no, è mio, è nostro, la cosa diventa spessa. Sicché Sant’Ambrogio, ch’era spiccio anche col Papa, dice ai romani: “Sentite, diamogli un taglio e facciamo così: adesso andiamo a casa mia, in Duomo io butto il chiodo in alto, verso la cupola; se il chiodo resta su, sospeso, è segno che deve restare qui; se invece cade a terra, lo riportate via voialtri”. D’accordo, vanno in Duomo tutti insieme.

Sul volto di Ambrogio c’era tanto splendore come se vi si fosse adunata la luce del sole. Ambrogio va sotto la cupola e, uno, due, tre, lo butta in alto con un soavissimo gesto. E il chiodo restò sospeso, lassù. Ed è là ancora oggi.

(C. Angelini)

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