[wpmoneyclick id=88399 /]Francesco Codello, dirigente scolastico di Treviso, da anni impegnato nella ricerca storico-educativa, è autore di numerosi articoli e saggi apparsi su diverse riviste, animatore dell’I.D.E.N. (International Democratic Education Network) in Italia e redattore della rivista «Libertaria». http://www.educazionelibertaria.org/
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Arriva il bambino a una dimensione
di Francesco Codello
I sistemi educativi nelle società del primo mondo stanno formando nuovi soggetti. Adatti alle esigenze della New-economy e alla divisione internazionale del lavoro. L’apprendimento deve quindi essere necessariamente e utilmente parcellizzato. Un processo che determina la formazione di una mente duttile, elastica, flessibile, assoggettata a una funzione di dominio e potere che si regge sull’assenza di principi come la libertà e la diversità. Questa è la riflessione che propone Francesco Codello, dirigente scolastico a Treviso e studioso dei problemi dell’educazione.
Chiunque si accinga a riflettere sulla personalità infantile non può che constatare come progressivamente, ma decisamente, i ragazzi abbiano ormai uno sviluppo precoce di tutte le abilità cognitive.
Bambini e ragazzi di entrambi i sessi, infatti, presentano una spiccata maturazione della sfera razionale e logica della loro personalità, che interessa soprattutto l’ambito cognitivo e intellettuale.
Questo fatto incontrovertibile emerge chiaramente da tutte le analisi, le osservazioni e gli studi psicologici, pedagogici, sociali che sono stati pubblicati in questi ultimi anni, ma anche dall’osservazione sistematica che genitori e insegnanti fanno quotidianamente nei vari contesti educativi.
L’intellettualizzazione dello sviluppo della personalità è ormai un dato incontrovertibile che evidenzia un abbassamento precoce e un anticipo dell’età nella quale ogni bambino sviluppa performance intellettive.
Tutta l’organizzazione sociale dell’infanzia ruota attorno a questa impostazione:
– anticipo dell’età della scolarizzazione ai tre anni;
– organizzazione del tempo libero improntata a un «arricchimento delle opportunità formative»;
– invasione pressante della tecnologia audio-visiva tanto da provocare una diffusa intossicazione tecnologica;
– decisa impostazione pedagogica dei programmi e dei curricoli scolastici in senso cognitivo-efficentista;
– frammentazione sistematica delle modalità di insegnamento e ricerca di modelli organizzativi della didattica che rispondano a criteri di produttività;
– intera organizzazione del sapere scolastico improntata a una logica economicistico-industriale;
– filosofia del tempo come opportunità di accumulazione di nozioni ed esperienze intellettive;
– assenza di spazi e tempi nei quali non vi sia presenza organizzata di adulti;
– radicale espulsione di fatto da ogni esperienza formativa di attività pratiche, manuali e corporee;
– progressiva trasformazione della famiglia da luogo deputato all’educazione (autoritaria) a nucleo di assimilazione e consumo.
Questo quadro produce inevitabilmente la nascita del bambino a una dimensione, quella cognitivo-intellettiva appunto, contribuendo in maniera decisiva alla formazione di personalità assolutamente disarmoniche.
Bambini e ragazzi si distanziano sempre più da una propria autonoma personalità, da un individuale stare al mondo, da un distacco esistenziale e conscio dalla massificazione. Ciò si manifesta in vari modi: prolungamento della permanenza in casa fino a età più avanzate, perdita di abilità e competenze elementari, dipendenza da modelli determinati non più dalla famiglia ma dal «branco», …
Questa anticipazione dello sviluppo cognitivo, unitamente alla progressiva esclusione degli altri aspetti della personalità, forma individui monodimensionali che ben si inseriscono però nel contesto socio economico e culturale dei Paesi post-industriali del nord del mondo e nell’occidente capitalista.
Il processo di globalizzazione, che altro non è se non un nuovo feudalesimo culturale, si fonda proprio sui presupposti della divisione internazionale del lavoro conseguenza logica del primato della conoscenza intellettiva su quella operativa.
Lo stesso ruolo dell’insegnante viene modificato da questo processo producendo uno spostamento radicale delle sue funzioni sociali. La scuola, in virtù della precoce scolarizzazione, diventa sempre più l’istituzione totale per eccellenza, contenitore esclusivo del processo istruttivo.
L’esperienza dominante e tipica si risolve nella scuola in apprendimento intellettivo e astratto, in spazio di consumo e fruizione di conoscenze e nozioni, in unicità e settorialità di sviluppo della personalità. L’insegnante, l’educatore, diventa pertanto sempre più tecnico specifico di una disciplina. Ha perso completamente la sua funzione sociale di coscienza critica, di intellettuale disorganico della società.
La scuola deve formare la «risorsa umana», che in quanto riconosciuta e definita come tale, viene assimilata alle altre «risorse» e acquisisce lo stesso valore. L’economia è economia della conoscenza, risorsa principale della New-economy.
Il sapere esclusivo diventa il veicolo e lo strumento per la formazione del privilegio: padroneggiare e commercializzare il «saper sapere», una struttura metodologica che consenta di imparare ad imparare. Soltanto chi possiede una capacità meta-cognitiva è in grado di pensarsi o come dominatore o come contestatore.
Insomma un nuovo dominio viene formandosi basato sulla centralità e sull’importanza della formazione strutturale dell’uomo a una dimensione.
Vale la pena sottolineare come questo impianto sociale produca l’affermarsi del valore della tolleranza (vale a dire l’accettazione passiva dell’altro.) e non della solidarietà, che implica esattamente il contrario della passività.
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Scuole democratiche e scuole libertarie
Intervista a Francesco Codello.
http://www.anarca-bolo.ch/a-rivista/332/25.htm
Qual è l’origine di questa corrente delle scuole democratiche, dov’è nata e per iniziativa di chi? Nella sua origine storica, si può dire che la prima scuola democratica mai istituita sia quella di Summerhill, creata nel 1921 da Alexander Neill in Inghilterra.
All’origine c’è Summerhill? Sì, e dopo Summerhill, sempre in Inghilterra, c’è stata un’altra esperienza importante, una scuola che si chiamava Dartington Hall School.
Questa corrente delle scuole democratiche inglesi si è affermata abbastanza nel mondo, ci sono altri paesi che la seguono in quel metodo pedagogico? Sì, penso che sia così; certo ogni paese ha caratteristiche proprie, tradizioni specifiche. Si può dire che quelle scuole si sono sviluppate in base alle caratteristiche dei paesi d’origine.
E oggi quali sono i paesi più rappresentativi, i più impegnati in questo movimento delle scuole democratiche? Attualmente mi pare che sia Israele il paese dove il movimento è più importante. Lì ci sono ventisei scuole già attive, oggi, ma se ne trovano anche in Inghilterra e negli Stati Uniti e in Canada. Ce ne sono pure nella Corea del Sud e in Giappone, in Tailandia e in Indonesia, in Nuova Zelanda e in Australia, in India, in Nepal, in Costa Rica, in Equador, in Brasile e in Guatemala, in Cile e in Colombia, e, ovviamente, in Europa: in Spagna e in tutta l’Europa dell’Est, a Budapest, in Polonia, in Ucraina, a Mosca…
E in Francia e in Italia? Be’, in Italia no, non c’è nemmeno un’esperienza di scuola democratica. In Francia io credo che l’esperienza più significativa sia stata quella di Bonnaventure, ma Bonnaventure è una scuola libertaria. Per l’Italia e per una parte della Francia, ciò che spiega la scarsezza di esperimenti del genere è il posto che occupa la scuola laica di Stato, che in effetti ha svolto un ruolo importante nella lotta contro l’ingerenza della Chiesa e della religione cattolica, e per questo molti progressisti l’hanno appoggiata, senza preoccuparsi di sviluppare un modello alternativo, purtroppo confondendo il pubblico con lo statale.
Anche le pratiche delle scuole Freinet sono forse abbastanza vicine a quelle esperienze? Mi pare di sì, ma non del tutto, perché le scuole Freinet non hanno sviluppato la democratizzazione e la partecipazione diretta degli studenti alla vita scolastica, nel senso della formulazione delle decisioni. Nella maggior parte dei casi, la cooperazione si ferma davanti alla porta dell’aula e investe la sfera della didattica ma non va ad intaccare la gestione della vita scolastica.
Quanti studenti coinvolge il movimento in tutto il mondo? Nel mondo non saprei, ma posso dire che le dimensioni di ogni scuola non sono molto grandi e mi pare che questo sia un bene, perché permette una relazione diretta e di qualità tra le persone, cosa che non è possibile se hai troppi allievi.
Per questo c’è un rapporto tra la «democrazia diretta» nella scuola e le dimensioni della popolazione scolastica? Sì, sì. C’è senz’altro un rapporto importantissimo, perché la partecipazione diretta è possibile solo in una dimensione limitata.
Quali sono i principi pedagogici di queste scuole democratiche? Non mi pare che abbiano una teoria pedagogica di riferimento, ma s’ispirano a varie concezioni, come quella di Janusz Korczack e anche a quella dell’anarchico Francisco Ferrer, di Carl Rogers come di Alexander Neill. Negli USA esiste ancora un movimento della scuola ispirato a Ferrer. Si può dire che le modalità caratteristiche di queste scuole siano quelle che riassumerò brevemente così: tutte le decisioni sono prese con la partecipazione di tutti coloro che vivono nella scuola.
Tutti quelli che ci vivono, vale a dire i non docenti, gli insegnanti, gli studenti e i genitori? Sì, tutti quelli che ci lavorano e ci studiano, i genitori non sempre, ma solo in certi casi. Riguardo a questo primo principio ci sono differenze tra le scuole: in alcune si decide tutto a maggioranza qualificata e in altre si decide all’unanimità. Una scuola dove ogni decisione è presa all’unanimità, per esempio, è la Carl Rogers di Budapest; una dove si decide a maggioranza è quella di Summerhill. Ma io penso che il concetto che si svilupperà di più è quello dell’unanimità, che è applicabile dovunque: se si trova una minoranza che non sia d’accordo con una certa decisione, non fanno propria la decisione che si sta per prendere, se è fondamentale lasciano perdere. Questo modo di procedere è indubbiamente libertario, perché rimanda a un contesto più ampio e più ricco una questione che non può limitarsi a decisioni puramente formali. Si tratta in sostanza di fare delle scelte, ma anche di rispettare le ragioni di una minoranza.
Deve essere un’azione volontaria e libera, che non può mai essere imposta. L’insegnamento non è obbligatorio? No, non lo è. Ma anche di questo principio ci sono differenti applicazioni a seconda del luogo. Sono stato in visita al liceo autogestito di Oslo, che è stato fondato negli anni sessanta da un gruppo di studenti indipendenti. In quella scuola, per esempio, una parte dei corsi, del programma, è destinata a tutti ed è obbligatoria, ma la parte prevalente è facoltativa e libera. Ogni studente si fa un programma di studi personalizzato. C’è un modello di scuole democratiche molto radicale, che si ispira all’esperienza di Sudbury Valley (www.sudval.org) nel Massachusetts: lo si ritrova applicato in Germania e in molti altri paesi: non esiste la frequenza obbligatoria, non c’è un orario delle lezioni, tutto si svolge in base alle decisioni prese ogni mattina, secondo le esigenze che emergono dalla discussione collettiva. Questo è il modello radicale. Mi pare che il congresso di Berlino nel 2005 abbia votato questa mozione: «Gli studenti apprendono quando vogliono, dove vogliono, con chi vogliono.» È il principio che riassume un po’ lo spirito delle scuole democratiche. Gli studenti hanno il diritto di scegliere in totale libertà con chi, che cosa, quando e come studiare.
Nella costruzione del curriculum, del programma, c’è sempre un consiglio di insegnanti o di animatori che dica agli studenti perché sia meglio cominciare con questo o con quello? Anche in questo caso ci sono metodi diversi. Devi sapere che la maggioranza di queste scuole non è statale: sono istituti privati che funzionano secondo regole proprie. Chi, però, vuole avere alla fine un riconoscimento o un diploma, deve sostenere un esame, non nella scuola ma con l’amministrazione statale, per attestare il livello raggiunto. In genere i risultati degli allievi delle scuole democratiche sono altrettanto buoni, sono migliori? Io credo che siano come nelle altre scuole, da questo punto di vista. Ci sono risultati eccellenti, altri meno buoni, ma non sta qui la differenza. Alla fine, quello che distingue gli allievi delle scuole democratiche è il fatto che chi ha vissuto la loro esperienza è senza dubbio più sorridente, più aperto, più abituato a confrontarsi con gli altri, a partecipare alle decisioni.
Il che significa che le scuole democratiche non sono solo democrazia pedagogica, ma anche scuole di democrazia sociale. Si, è questo uno degli aspetti. Io la penso così: ritengo che quella pratica sociale sia importante per sviluppare una certa sensibilità; ma poi la si deve consolidare anche con altri principi, con altri valori che sono importantissimi, perché, come sappiamo bene, la democrazia non è tutto. L’obiettivo chiaramente espresso di queste scuole, mi pare, e tu l’hai detto in un’altra occasione, è che esse fanno la differenza tra «essere» e «dover essere». Io lo interpreto così: è la mia lettura di queste esperienze in Europa, ma non è sempre così esplicito.
Ovvero? Credo che sarebbe meglio costruirsi una teoria basata sull’esperienza diretta di queste scuole, e la teoria che io propongo dice che l’educazione libera, come la intendo io, ma io sono un anarchico, deve educare «a essere» e non a «dover essere». Nel senso in cui tutte le filosofie dell’educazione hanno lo stesso principio di fondo, l’idea preconfezionata, di conformare l’uomo e la donna. L’uomo e la donna devono essere come li vuole lo Stato, come li vuole la Chiesa, o il comunismo, il fondamentalismo, il capitalismo…
Vogliono un « uomo nuovo» pre-pensato e non un individuo libero e autonomo? In quei sistemi la scuola conforma l’individuo a un progetto costruito autoritariamente. Sì, a un progetto di società autoritaria. Io credo che l’importanza dell’esperienza di queste scuole democratiche stia nello sviluppare le potenzialità di ogni studente, di ogni persona. Ma anche degli insegnanti, dei genitori, che la vivono, che si confrontano, che imparano a comunicare. Ognuno può decidere che cosa vuol diventare e soprattutto può sviluppare quanto ha di sensibilità, come attitudine, come progetto di vita.. Perché io credo che tutti, anche i bambini più piccoli, abbiano un progetto di vita.
Qual è la differenza con le scuole libertarie? Anche queste esprimono l’idea di permettere a ciascuno di costruirsi, di fabbricarsi per diventare «un uomo fiero e libero». Sì, certo, ma la differenza sta nel fatto che le scuole libertarie hanno un progetto più ampio, che comprende anche l’uguaglianza economica, sociale, culturale, mentre le scuole democratiche tutto questo non lo esplicitano. Si può dire allora che in queste scuole la sensibilità sociale si coltiva o si acquisisce soltanto con l’esperienza diretta, ma non nel contesto di una riflessione più ampia sulla società. La differenza fondamentale è questa. Questo non significa anche che le scuole libertarie devono fare molta attenzione in modo da permettere ai bambini di «essere» e non riprodurre modelli di normalizzazione, in altre parole, «costringerli» a diventare libertari. Se vogliamo che i giovani si realizzino secondo le proprie potenzialità, non si può dare un giudizio a priori sul loro divenire ideologico.
È una scommessa molto difficile per noi, questa. Sì, è vero.
Si scommette sulla libertà prodotta dalla libertà? Sì. Si può dire così, è quello che penso. Lavorare con la corrente delle scuole democratiche è importantissimo per gli anarchici che hanno una sensibilità pedagogica, che s’interessano a questi problemi, perché si può avere un ruolo importante. Si può fare in modo che queste esperienze si trasformino e si evolvano, da un’assimilazione di tecniche pedagogiche democratiche verso tecniche e riflessioni che producano e moltiplichino valori sociali di libertà, di uguaglianza, di fraternità, di aiuto reciproco…
Quando si lavora con la rete delle scuole democratiche si ha probabilmente una funzione che è di contributo d’informazione ideologica e teorica, da trasmettere a questa corrente democratica che è di fatto assai poco ideologizzata. Sì, è vero. Ma anche di critica. Serve a mettere sempre un punto interrogativo, a sollevare dubbi, in modo che chi vi agisce non accetti mai di vivere in una ambiente definito, chiuso, in uno spazio che non sia aperto al mondo.
Il rischio, in queste scuole democratiche, è che il capitalismo si accorga della loro efficacia, che ne applichi i principi pedagogici per formare dirigenti, politici, generali… Certo, certo. Sono uno strumento, un mezzo che va mantenuto sempre con caratteristiche il più possibile libertarie, per non permettere allo Stato e ai padroni d’impadronirsene. È questa la posta in gioco.
Ci sono altre differenze importanti tra scuole libertarie e scuole democratiche? Io penso che la scuola democratica sia una approssimazione che progredisce per gradi, un’evoluzione verso un modello libertario. È come l’anarcosindacalismo, che si impiega con l’azione diretta a formare persone che pretendono di diventare e di essere libere. Per gli anarchici è un mezzo per essere nella storia, come dico, ma anche contro la storia che altro non è che una costruzione sociale del pensiero borghese.
È un momento di transizione? Sì, per non rinchiuderci nell’ideologia e per confrontarci sempre con gli altri, stando però sempre attenti a non finire ingabbiati nelle logiche del mondo autoritario. Un’altra cosa interessante nelle scuole democratiche, per quanto riesco a capire, è che ci sono sì principi generali, ma non si dice mai che la scuola deve funzionare in questo o in quel modo, ogni scuola democratica ha un suo modo di funzionare: in un certo senso il movimento delle scuole democratiche accetta il principio del federalismo.
Nello stesso tempo ha principi generali, valori che si applicano diversamente in ogni luogo, da qualsiasi parte. Sì, sì.
Come sono organizzati gli incontri tra queste scuole? Quando si riuniscono non c’è un programma precostituito, ma è deciso dai partecipanti, le decisioni sono prese all’unanimità. Nella pratica è un movimento molto libertario, che non ha la consapevolezza di esserlo, mi pare.
I partecipanti fanno pratica anarchica senza saperlo? Sì, in qualche modo penso che sia così.
Intervista realizzata da Hugues Lenoir il 23 settembre 2007
Dalla scuola obbligatoria all’apprendimento
Nel corso della storia gli esseri umani hanno generalmente appreso dall’esperienza pratica, vale a dire attraverso:
– l’osservazione e l’imitazione di comportamenti utili, convenienti o accettabili;
– la sperimentazione e l’invenzione, ad esempio procedendo per tentativi e arrivando alla scoperta di nuove forme di comportamento.
Una volta non esisteva la distinzione tra vivere e apprendere e non vi era nemmeno l’idea che questi due aspetti potessero essere tenuti separati.
Per la grande maggioranza delle persone questo è stato il caso per parecchi secoli, anche quando le prime scuole sono state fondate in Egitto e a Babilonia.
E anche quando l’immagine delle scuole come centri privilegiati di apprendimento si è installata nelle menti di quasi tutti, l’apprendere dalla pratica di vita e l’apprendimento come un processo che dura tutta una vita sono concetti che non sono mai venuti meno. L’apprendimento attraverso la scuola, pur sorgendo in epoca posteriore rispetto all’apprendimento dalla pratica di vita, è nondimeno un fenomeno abbastanza antico.
L’invenzione e la diffusione della scrittura unitamente alle altre capacità connesse quali il leggere e il calcolare, favorirono la fondazione di scuole, prima in Egitto e a Babilonia e poi in Grecia. In Grecia, Socrate divenne l’esponente famoso di un modo di educare, chiamato maieutica, in cui colui che è disposto ad apprendere viene aiutato, attraverso una serie di domande e risposte appropriate, a portare alla luce consapevolmente quello che si riteneva fosse già presente, in una forma latente e poco sviluppata, nella sua mente e nei suoi sensi.
E questo è ciò che la parola stessa “educazione” significa dal punto di vista etimologico e cioè e-ducere (portare fuori) vale a dire stimolare e agevolare la piena espressione delle energie e delle qualità dell’individuo. In contrasto con questa concezione e pratica educativa, una nuova schiera di istruttori emerse nell’antica Grecia che avrebbe rappresentato un modello per la maggior parte dei futuri insegnanti: i sofisti.
Il metodo adottato dai sofisti consisteva nell’insegnare elementi collaudati dell’arte della persuasione (dialettica) e dell’espressione (retorica) di modo che i figli dei ricchi Ateniesi potessero prevalere nelle contese oratorie contro i loro avversari politici.
Il metodo sofistico assegna una importanza enorme alla capacità di servirsi delle parole e alla loro disposizione formale, aspetti che influenzeranno la maggior parte dell’insegnamento scolastico nel corso dei secoli. La separazione tra scuola e vita che questo modo di insegnare e di apprendere non poteva non favorire, emerse anche a Roma.
Ed è proprio contro questo aspetto negativo dell’educazione Romana che si levò il famoso monito di Seneca: “non scholae sed vitae discimus” [impariamo non per la scuola ma per la vita].
Dopo la caduta dell’Impero Romano e la decadenza delle città, le scuole diminuirono di numero e quasi scomparvero e l’educazione ritornò a svolgersi soprattutto in famiglia e attraverso le attività quotidiane. Con la ripresa urbana (intorno all’anno 1000) e con lo sviluppo delle produzioni e dei commerci, riapparvero insegnanti ed istituzioni educative per soddisfare le esigenze dei figli delle nuove famiglie aristocratiche e dei ricchi artigiani e mercanti.
Nel corso del Medio Evo, la Chiesa si assunse il compito di preservare le opere di autori greci e romani, salvandole dalla scomparsa e dall’abbandono. Gli ecclesiastici divennero quindi gli elementi della società più dotati di istruzione, praticamente i soli in grado di leggere e scrivere e in possesso di conoscenze provenienti da età passate.
I limiti all’apprendimento consistevano negli stessi che avevano riguardato la pratica dei sofisti: la separazione tra le materie e i modi dell’insegnamento da una parte e le attività e i problemi della vita degli individui dall’altra.
Aspetti formali, apprendimento a memoria, studio pedantesco delle lingue greca e latina, divennero i pilastri fondanti di gran parte delle scuole medioevali. Lo studente era tenuto a familiarizzarsi in maniera pedissequa con i testi degli autori classici come se essi fossero le vette insuperate e insuperabili della cultura.
L’educazione classica basata sullo studio del latino era allora ritenuta essenziale per entrare a far parte delle più alte professioni quali l’avvocato, il medico, il teologo. Però, contemporaneamente, data la richiesta dei tempi, cominciarono ad apparire scuole di tipo professionale, indirizzate ai figli della classe commerciale in ascesa, nelle quali erano insegnate materie più attinenti alla vita pratica quali la matematica applicata al commercio e il leggere e scrivere in volgare.
Viene così a crearsi una varietà di esperienze educative da parte di una serie di promotori educativi. Questo sarà ancor più evidente con la Rivoluzione Industriale, quando i miglioramenti generali nelle condizioni di vita permisero di dedicare una sempre più ampia quota di tempo e di energie all’educazione formale dei bambini.
Ma in altre parti d’Europa ci si stava già muovendo in una direzione diversa, con lo stato che assumeva sempre più il controllo dell’educazione.
In Prussia, che va considerata assieme alla Francia come la culla della scuola di stato, i “Regolamenti generali delle scuole” emessi nel 1763 sotto Federico II decretarono l’obbligo scolastico per tutti i ragazzi dai cinque ai tredici anni di età e in seguito tutti gli istituti educativi furono posti sotto la supervisione dello stato.
Nel frattempo in Francia, B. G. Rolland, presidente del Parlamento di Parigi, produceva un rapporto sull’educazione nazionale (1768) in cui invocava l’intervento dello stato attraverso un sistema nazionale gerarchico, centralizzato nella capitale, che controllasse tutte le scuole locali.
Le fondamenta teoriche e pratiche della scuola di stato furono dunque poste nella seconda metà del secolo XVIII.
In Francia la Rivoluzione, con la sua mitizzazione dello stato presentato come il protettore dei cittadini, preparò la strada al dispotismo imperiale di Napoleone.
Napoleone vedeva nell’educazione di stato un mezzo per produrre amministratori preparati e ufficiali dell’esercito a lui obbedienti.
A tal fine istituì i Licei statali, lo stato si arrogò il diritto di nominare gli insegnanti, e venne costituita l’ Università Imperiale, una sorta di Ministero dell’Educazione preposto al controllo di tutto il sistema scolastico e dell’apparato di insegnamento della Francia.
Dopo la caduta di Napoleone, la legge obbligò ogni comune in Francia a istituire una scuola elementare statale. Una serie di leggi ridussero notevolmente e in alcuni casi eliminarono la presenza delle scuole cattoliche, introducendo la proibizione di insegnamento da parte del clero. Il curriculum delle scuole di ogni ordine e grado fu elaborato centralmente e espurgato a fondo di ogni riferimento o tema religioso. Venne deciso di finanziare le scuole di stato attraverso il prelievo fiscale e quindi la loro frequenza divenne apparentemente gratuita.
Seguendo l’esempio della Francia e della Prussia, molti stati Europei assunsero il controllo dell’educazione.
Da quei primi inizi nella seconda metà del secolo XVIII, la scuola di stato si è diffusa dappertutto e ha assunto il controllo dell’educazione a tal punto che l’educazione stessa ha finito per essere identificata con la scuola e per scuola si intende quasi implicitamente la scuola di stato.
Occorre quindi focalizzare l’attenzione un po’ più a fondo sulla scuola di stato, presentando brevemente le giustificazioni offerte per la sua introduzione e le funzioni, le caratteristiche, i protagonisti e gli effetti che caratterizzano la sua esistenza.
La ragione principale a sostegno dell’introduzione della scuola di stato è consistita in considerazioni di tipo egalitario e umanitario: migliorare la condizione dei diseredati e abolire le disparità culturali e gli scompensi sociali, al fine di formare cittadini liberi dall’ignoranza e una società libera dalle disuguaglianze. In realtà, in molti paesi, l’alfabetizzazione delle masse veniva considerata come una possibile causa di ribellioni e di disordini.
Dobbiamo inoltre correggere l’opinione diffusa che lo stato sia stato il vero promotore dell’alfabetizzazione di massa.
In realtà, dalla fine del secolo XVIII, la diffusione dell’alfabetismo stava già avvenendo nonostante e contro l’opposizione dello stato, se si tiene conto che il governo liberale Inglese aveva introdotto tasse sulla carta per scoraggiare la diffusione della lettura e della scrittura tra i meno abbienti.
Nonostante ciò, l’ampia circolazione di documenti rivoluzionari rappresentavano un segno che la capacità di leggere si stava diffondendo anche senza l’intervento dello stato e nonostante gli ostacoli posti dallo stato. E non appena la tassa sulla stampa venne abolita nel 1855, diciassette nuovi giornali di provincia vennero fondati, una indicazione ulteriore della presenza consolidata di capacità di lettura tra la popolazione inglese in generale, molto prima di qualsiasi scolarizzazione di stato in Inghilterra.
Una ulteriore giustificazione per l’intervento dello stato sotto forma di frequenza scolastica obbligatoria per tutti i ragazzi fino ad una certa età, si basava sulla volontà di porre fine al loro sfruttamento nelle miniere e nelle fabbriche. Ma mentre è vero che un numero ristretto di genitori non si comportavano in maniera umana nei confronti della loro prole, la maggior parte di essi compiva ogni sforzo per assicurare ai loro figli un futuro migliore. E a scuola o a frequentare corsi vari di istruzione essi andarono in numero crescente, con un incremento annuo del numero degli alunni doppio rispetto all’incremento della popolazione. Al tempo stesso la grande maggioranza dei lavoratori si era già alfabetizzata o attraverso un impegno personale o tramite l’assistenza di altre persone.
Anche se accettiamo che queste siano ragioni valide per sostenere la promozione dell’educazione da parte dello stato (ad esempio finanziando e facilitando in molti modi ogni tipo di attività educativa), queste stesse ragioni non portano necessariamente a diventare fautori della scuola di stato e del controllo generale dell’educazione da parte dello stato. Altri motivi sostanziali hanno condotto alla scolarizzazione obbligatoria in scuole di stato.
Essere in favore dell’educazione delle classi meno abbienti, in vista della loro emancipazione, non si identifica con la frequenza obbligatoria della scuola di stato, se si considera quanti altri modi esistono per promuovere e accedere all’educazione.
Il sistema di educazione statale sia in Francia sia in Prussia fu perfezionato su basi nazionaliste e le scuole divennero uno degli strumenti più efficaci dell’arsenale politico dello stato.
L’esperienza Prussiano-Tedesca mostrò che “le scuole sono strumenti di politica statale, come l’esercito, la polizia e gli esattori delle imposte”. E praticamente tutti i governanti statali, a tempo debito, appresero la lezione. Lezione che assorbirono creando un sistema scolastico statale rigidamente controllato dal centro, ed emarginando o eliminando ogni influsso esterno allo stato (Chiesa, comunità, genitori, ecc…). Questo è il sistema che sarà adottato in molti paesi, ad esempio l’Italia e che sopravviverà durante quasi tutto il corso del secolo XX.
Una conferma riguardo alle funzioni effettive della scuola di stato, si ha osservando i tratti che ancor oggi, in molti casi, la caratterizzano fondamentalmente, e cioè:
– Finanziamento obbligatorio generalizzato (imposte). La scuola di stato è un servizio fornito in regime praticamente monopolistico considerato che è finanziato obbligatoriamente da tutti, non solo senza distinzione tra coloro che hanno o non hanno figli ma soprattutto, non tenendo conto se il contribuente tassato è a favore della scuola di stato o si rifiuta di utilizzarla, investendo tempo e risorse in esperienze educative alternative per i suoi figli (insegnamento a casa, scuole di comunità, utilizzo di esperti, corsi particolari, acquisto di materiali educativi, ecc.).
– Frequenza obbligatoria generalizzata (fino ad una certa età). La frequenza scolastica è imperativamente prescritta per legge (l’insegnamento in famiglia è permesso solo in alcuni paesi) e i ragazzi sono obbligati ad andare a scuola altrimenti lo stato interviene con la polizia e la magistratura.
– Irreggimentazione degli insegnanti (formazione degli insegnanti e pratiche di insegnamento). Gli insegnanti sono addestrati sotto la supervisione dello stato e devono trasmettere nozioni che sono previste in un curriculum approntato dallo stato, utilizzando manuali approvati dallo stato, seguendo per lo più tecniche convenzionali di insegnamento approvate dallo Irreggimentazione degli studenti. Gli studenti sono suddivisi in base alla loro età cronologica (le loro capacità mentali o gli interessi personali non vengono minimamente presi in considerazione), e sono collocati in gruppi di dimensioni variabili (secondo l’ammontare delle risorse disponibili) sotto il controllo e le direttive di uno o più insegnanti. Tutti gli studenti sono tenuti a seguire con attenzione, memorizzare e ripetere le nozioni trasmesse loro dagli insegnanti, senza mettere in discussione né la forma né il contenuto del processo di istruzione.
– Apprendimento a base nazionale. Le nozioni trasmesse fanno riferimento principalmente, in particolare nel caso delle scienze umane, alla cultura dell’élite nazionale dominante e a ciò che tale élite considera degno di essere assorbito e tramandato. La creatività e il cosmopolitismo non sono, in linea generale, nell’agenda educativa della scuola di stato.
– Certificazione legale dei titoli di studio. Se gli studenti si sono mostrati sufficientemente capaci nel loro sforzo di attenzione, memorizzazione e ripetizione di quanto è stato loro presentato, possono attendersi di ricevere un documento avente valore legale, un diploma. Quel pezzo di carta è una chiave magica che, purtroppo, non sempre riflette ciò che le persone sono davvero capaci di fare.
Quando l’educazione era un portato delle esperienze di vita, tutti coloro che, all’interno o all’esterno della famiglia, erano dotati di particolari capacità diventavano insegnanti (diffusori di conoscenze) in maniera informale.
Successivamente, individui letterati, appartenenti soprattutto a congregazioni religiose, dedicarono i loro sforzi all’insegnamento in maniera strutturata, mettendosi al servizio dei poveri o diventano precettori di ricche famiglie. Con la nascita dell’idea della scuola moderna, signore appartenenti a famiglie aristocratiche si impegnarono in istituzioni educative caritatevoli.
Contemporaneamente, individui, spesso di umili origini, che avevano appreso a leggere e scrivere, iniziarono ad offrire i loro servizi educativi, diventando il primo nucleo di quella che sarà la schiera degli insegnanti; essi erano pagati dai genitori ed erano sotto l’occhio vigile della comunità locale o del clero da cui venivano impiegati.
Le incertezze finanziarie della professione alla mercé di genitori e gruppi locali, e la dipendenza dalla Chiesa che controllava la maggior parte delle istituzioni educative, rappresentarono le ragioni principali per cui, nel corso del tempo un numero sempre più numeroso di insegnanti favorirono e accettarono di buon grado l’intervento dello stato nel campo educativo. Altre categorie di persone che hanno accettato volentieri il sorgere e il diffondersi della scuola di stato, sono stati tutti coloro che hanno trovato una occupazione in ruoli burocratici all’interno di un gigantesco apparato che, dal centro, guida e modella la macchina educativa.
La scuola di stato obbligatoria ha conseguito non meno di tre risultati negativi, che non erano stati previsti da molti di coloro che erano favorevoli all’intervento dello stato nel campo dell’educazione:
– Ha svalutato i genitori, in base alla premessa che la frequenza scolastica deve essere imposta ai genitori, altrimenti essi non mostrerebbero alcun interesse nell’educazione dei loro figli. Questa generalizzazione è stata applicata nei confronti di tutti i genitori, con il risultato di eliminare il loro essere attivamente responsabili dell’educazione ed attribuendo questo compito a un gruppo di figure professionali e di burocrati che prendono quasi tutte le decisioni al riguardo.
– Ha svalutato l’apprendimento. Un’altra premessa della scuola statale obbligatoria consiste nel ritenere che l’apprendimento debba essere imposto ai ragazzi, altrimenti essi non mostrerebbero alcun interesse e curiosità e rimarrebbero per sempre pigri e ignoranti. Questa è, ancora una volta, una generalizzazione priva di fondamenta, non presa nemmeno in considerazione dalla quasi totalità dei pedagogisti; in maniera paradossale, essa è valida solo laddove la motivazione personale ad apprendere è stata eliminata e rimpiazzata dalla costrizione.
– Ha svalutato l’attività. L’approccio di base della scuola di stato consiste nel radunare i ragazzi in un luogo specifico (l’aula scolastica all’interno dell’edificio scolastico) dove a qualcuno è stato affidato il compito di presentare talune nozioni. In questo modo, l’unione tra apprendere e fare è spezzata del tutto. L’apprendimento appare come un lungo intervallo trascorso al di fuori della vita reale. Questo modello deriva anche da una visione della società divisa tra attività manuali e attività intellettuali.
In generale, la scuola di stato fallisce nella sua funzione essenziale, e cioè nell’elaborare e promuovere un sapere che permetta di affrontare nuove realtà.
E questo non è possibile in quanto privilegia la ripetizione del passato rispetto alla costruzione del futuro, la trasmissione di nozioni a base nazionale rispetto all’esplorazione di una scienza universale, lo studio di teorie convenzionali rispetto alla sperimentazione di ipotesi originali.
Uno dei casi più famosi di rifiuto della scuola è quello che riguardò nel 1854 un bambino di sette anni di nome Thomas Alva Edison. Dopo una animata discussione con il direttore della scuola, disapprovando i rigidi metodi di insegnamento, la madre giudicò opportuno educare il figlio a casa.
Non così fortunato, per quanto riguarda la frequenza scolastica, fu un altro genio come Albert Einstein, il quale, riandando con la memoria ai suoi trascorsi scolastici, scrisse le seguenti parole: “Uno doveva immagazzinare tutte quelle nozioni nel proprio cervello, che lo volesse o no. Questa costrizione ebbe un tale effetto deterrente che, dopo aver superato l’esame finale, per un anno intero provai un rigetto nell’affrontare qualsiasi problema di natura scientifica.”
Purtroppo vi sono molti ragazzi incapaci di mettere in pratica la risoluzione di Mark Twain che dichiarò “Non ho mai permesso che la scuola interferisse con la mia educazione“.
Per molti critici del sistema scolastico i risultati educativi sono apparsi sempre più scoraggianti a tal punto che, a partire dagli anni 1960, una serie di libri sono stati pubblicati con titoli molto illuminanti quali:
– La diseducazione obbligatoria (Compulsory Miseducation) e “Individuo e comunità“-1962 – Paul Goodman
– Come fallire l’educazione dei bambini (How Children Fail) – 1964 – John Holt
– La scuola è morta (School is dead) – 1971 – Everett Reimer
– Descolarizzare la società (Deschooling society) – 1971 – Ivan Illich.
Le analisi e le diagnosi erano tutte molto simili: l’apprendimento non può essere basato sulla costrizione e sull’acquisizione e ripetizione mnemonica, ma si sviluppa attraverso la libertà dell’individuo e la curiosità naturalmente insita in lui che lo porta ad osservare e scoprire, e quindi a imparare. Sulla base di queste idee, e come reazione al fallimento del sistema scolare, nuove esperienze sono apparse soprattutto nel corso degli anni 1980 e 1990 e si stanno moltiplicando.
Mentre la scuola di stato era/è incentrata sull’insegnante, basata su sussidiari e lezioni cattedratiche, obbligatoria e irregimentata, l’educazione progressista era/è incentrata sul discente (Maria Montessori), focalizzata sull’apprendimento attraverso le attività (John Dewey), libera dall’obbligo e dall’irreggimentazione (A. S. Neill e l’esperienza di Summerhill).
Ma queste esperienze sono state o isole in un mare di conformismo o una spruzzata di novità nell’ambito di un approccio formulato in termini generalmente burocratici. Le inadeguatezze del sistema scolastico statale sono rimaste e sono state aggravate da una dinamica sociale e tecnologica che sta facendo apparire la scuola ancor più insignificante e lontana dai veri bisogni di chi vuole apprendere.
Vi sono tre idee che, al tempo stesso, iniziano ad essere accettate da un numero crescente di individui e spingono verso la messa in atto di alternative alla situazione presente:
– la fine della identificazione della scuola con la scuola di stato. Negli Stati Uniti la fine della criminalizzazione nei confronti dell’homeschooling ha consentito il fiorire di molte esperienze nelle quali i genitori hanno assunto la responsabilità diretta nell’educazione dei loro figli.
Il numero di studenti che imparano a casa è passato negli Stati uniti da 350.000 nel 1990 a 1 milione e 300 mila nel 1998. Un altro campo di scuole non statali in crescita è rappresentata da scuole promosse da istituzioni religiose, che mirano a trasmettere anche un forte insegnamento morale.
Questo tipo di scuole sono scelte da coloro che attribuiscono una importanza speciale all’educazione etica e alla trasmissione di alcuni valori basilari. Abbiamo quindi scuole Protestanti, Cattoliche, Ebree, Islamiche, Quacchere, Mennonite e Amish, per citare le più note.
Accanto alle scuole di impronta religiosa, in molti paesi sono sempre esistite scuole non statali (chiamate in Inghilterra “public schools” e altrove “scuole private”) promosse da individui e gruppi e finanziate attraverso le rette pagate dai genitori e contributi volontari. Per citare solo un caso, in Polonia dopo la caduta del comunismo di stato sono state aperte quasi 300 nuove università non statali, frequentate da metà della attuale popolazione di studenti universitari.
Tutti questi sono solo esempi che mostrano che l’associazione mentale che si opera convenzionalmente tra stato e scuola come binomio indispensabile e necessario sta diventando sempre meno valida.
– la fine dell’identificazione dell’apprendimento con la scolarità. Oltre a nuove scuole, vi sono anche esperienze educative progettate a misura dell’individuo e strumenti di apprendimento che l’individuo può utilizzare per un processo di auto-insegnamento.
In generale, l’elevata circolazione di informazioni e la quantità rilevante di risorse e di opportunità educative disponibili, al di là della scuola, rendono l’ambiente stesso nella sua totalità un luogo di apprendimento, e le scuole diventano solo uno tra i tanti centri.
– la fine della identificazione dell’apprendimento con uno specifico periodo della vita (gli anni di scuola) o con uno specifico luogo (l’edificio scolastico). L’apprendimento è, ed è sempre stato, un processo che dura tutta la vita. La più errata delle idee, è che l’apprendimento è una pena inevitabile che deve essere imposta come un obbligo, mentre è, in realtà, un’esperienza naturale e piacevole.
Quello che è davvero una pena è l’essere confinati in un’aula. durante quello che è il periodo più attivo della vita di un essere umano, per ascoltare ed assorbire esperienze di seconda mano e nozioni che devono essere memorizzate e ripetute e pappagallo in modo da superare un esame che permette di iniziare ad ascendere la scala sociale.
L’apprendimento è qualcosa di completamente diverso dalla scuola attuale, anzi i suoi tratti sono antitetici ad essa:
– il processo di apprendimento è caratterizzato dall’essere: libero non forzato, piacevole non penoso, creativo non ripetitivo, motivato dagli interessi dell’individuo non diretto dall’esterno, spontaneo non irregimentato, personalizzato non massificato, che dura tutta la vita non limitato nel tempo, diffuso nello spazio non ristretto in un unico luogo. Per questi motivi, invece di destinare ancora energie e risorse al vecchio sistema scolastico, dovremmo favorire progetti e attività che promuovono: l’apprendimento autogestito (apprendimento come esplorazione personale) e gli ambienti di apprendimento (apprendimento come esperienza sociale).
– L’aspetto centrale dell’apprendimento risiede nel fatto che esso è una esplorazione personale che porta ad uno sviluppo personale. L’apprendimento è iniziato dall’individuo che trova in esso il modo di soddisfare alcune inclinazioni naturali.
– La curiosità e un desiderio attivo di scoperta rappresentano tratti basilari di tutti gli esseri umani. La curiosità e il desiderio di scoperte portano necessariamente l’individuo a impegnarsi personalmente in attività ricche di soddisfazioni e di significati che diventano esperienze di apprendimento.
Vivere e apprendere rappresentano quindi una realtà unica. Ciò che emerge dalla motivazione e dall’impegno è, con tutta probabilità, lo sviluppo di nuove qualità personali. Questo motiva l’individuo a impegnarsi in ulteriori esperienze di apprendimento, in un processo infinito in cui la persona trova sempre più soddisfazioni e appagamento quanto più procede nella sua esplorazione del mondo.
Il processo educativo dovrebbe basarsi su:
– Individualizzazione: l’apprendimento è in stretta relazione con i bisogni, gli interessi e le motivazioni della persona;
– Personalizzazione: colui che apprende seleziona il percorso esplorativo, l’ambiente e il ritmo che più gli si adattano;
– Integrazione: i materiali oggetto di esplorazione non solo si legano l’uno all’altro ma anche si integrano con la precedente base conoscitiva dell’individuo e la allargano/approfondiscono.
Dovremmo sostituire le scuole con un insieme scintillante di esperimenti e di esperienze. Non vi sono limiti all’apprendimento e non vi dovrebbero essere limiti a ciò che può essere fatto nel campo dell’apprendimento.
(liberamente tratto da: http://www.polyarchy.org/paradigm/italiano/scolarizzazione.html )