Richiamo di Venezia
Ultimo sole di un tardo settembre: le statue si riposano sulle nicchie e sui fastigi, i colombi brontolano quietamente; la città, infine, ha un respiro lungo, riposante, e riposano Murano e Burano, i cipressi del Cimitero e di San Francesco, i campanili di Torcello e di San Lazzaro degli Armeni. Accostata al parapetto di un ponte, una coppia di stranieri anziani, al tramonto: sono ritornati, chissà dopo quanti anni, chissà da qual punto della terra, a Venezia. Passa vicino un Veneziano, un operaio: viene da Marghera a o da Mestre, dove cerca di guadagnare quel tanto che gli permette di vivere in una casa malsana e imporrita, in un alloggetto cui ci si arrampica attraverso un abbozzo di scala: ma su in alto c’è un veroncino con una specie di poltrona, una pipa, quattro vasi di gerani, e, fuori, tutti i tetti, i campanili, le nuvole della città a portata di mano.
Quei due, che sono venuti da chissà dove, quest’uomo che è nato qui tra due callette, sanno in ugual modo cosa significhi il richiamo di Venezia.

Venezia
C’è una città di questo mondo
ma così bella, ma così strana
che pare un gioco di fata Morgana
o una visione del cuore profondo.
Avviluppata in un roseo velo,
sta con sue chiese, palazzi giardini,
tutta sospesa tra due turchini,
quello del mare, quello del cielo.
Così mutevole!… A vederla
nelle mattine di sole bianco,
splende d’un riso pallido e stanco,
d’un chiuso lume come la perla;
me nei tramonti rossi, affocati,
è un’arca d’oro, ardente, raggiante,
nave immensa viaggiante
a lontani lidi incantati.
Quando la luna alta inargenta
torri snelle e cupole piene,
e serpeggia per cento vene
d’acqua cupa e sonnolenta,
non si può dire quel ch’ella sia,
tanto è nuova mirabile cosa:
isola dolce, misteriosa,
regno infinito di fantasia…
Cosa di sogno, vaga e leggera:
eppure porta mill’anni di storia,
e si corona della gloria
d’una grande vita guerriera.
Cuor di leonessa, viso che ammalia
o tu, Venezia, due volte sovrana;
pianta di forte virtù romana,
fiore di tutta la gloria d’Italia. (D. Valeri)

Settembre a Venezia
Già di settembre imbrunano
a Venezia i crepuscoli precoci
e di gramaglie vestono le pietre.
Dardeggia il sole l’ultimo suo raggio
sugli ori dei mosaici ed accende
fuochi di paglia, effimera bellezza.
E cheta, dietro le Procuratie,
sorge intanto la luna.
Luci festive ed argentate ridono,
van discorrendo trepide e lontane
nell’aria fredda e bruna.
Io le guardo ammaliato. (V. Cardarelli)

Impressioni su Venezia
La prima volta che si vede Venezia si ha l’impressione di trovarsi in una città del retroterra che abbia sofferto un’inondazione. Le isole che emergono qua e là dalla laguna, con gli alberi e i caseggiati, come da una pianura allagata, quella barca comune su cui arranca un vigile urbano in tenuta estiva, lungo il Canal Grande, la quale par proprio una barca di salvataggio, tutto concorre a favorire l’inganno. Per un momento siamo tratti a considerare lo spettacolo che dà Venezia come qualche cosa d’immensamente provvisorio e bellissimo. Illusi dalle apparenze, ci perdiamo a seguire con gli occhi e con la fantasia, in tutta la sua estensione, il flagello che ha colpito questa città, seppellendola per metà nelle acque, invadendo tutte le sue viuzze, i suoi negozi e le sue cantine. Ma una gondola che spunta ad un tratto, sull’angolo di un palazzo del Canal Grande, ci ricorda che siamo a Venezia.
Quello che ammiriamo non è il prodotto di un cataclisma, bensì opera dell’uomo, capolavoro di una razza ingegnosa e paziente, che costruì  una città in mezzo all’acqua, per ragioni difensive, beninteso, ma soprattutto, io credo, per essersi innamorata di quest’idea, per fare una cosa mai vista e inaudita: Venezia. Dove, a dire il vero, non si ha più il senso d quel che sia  la terra, la buona terra fangosa e fruttifera, che infarina gli abiti e ci fa ombra coi suoi alberi, la terra moderatrice di venti con le sue colline, teneramente sospirosa nelle notti di luna; popolata di effluvi di voci e di canti. Qui non ci sono che pietre ed acqua. A questi due elementi si riduce la vita di una città che fu così potente nel mondo ed è tuttora così bella.
Ecco perchè ogni minimo indizio di vegetazione sorprende, a Venezia, in maniera singolare. E’ davvero incredibile veder salire la mattina, verso Rialto, dei barconi colmi di ortaggi freschi. Quei disadorni e sgangherati barconi mettono, a piè dei palazzi del Canal Grande, una nota di umiltà e di gaiezza inattesa e sono certo più significativi dei famosi e agghindatissimi bragozzi chioggiotti che vengono di notte a sbarcare il pesce a Riva degli Schiavoni. Non per nulla i Veneziani si compiacciono grandemente delle loro verdure. Nessuno riuscirà mai a convincerli, per esempio, che la lattuga romana può essere preferibile al radicchio di Treviso. Per un mazzo di insalata essi darebbero volentieri tutte le loro celebrate rarità e specialità piscatorie.
I pittori lagunari, un tempo, non dipingevano che cieli e acque. Poi vennero i più sottili e moderni, i quali scoprirono la vera poesia della laguna, consistente, per l’appunto, nei gracili alberelli dell’estuario, in quelle sue disperate tracce di verde e di abitato rustico. Questa è insomma la poesia delle isole intorno a Venezia, vale a dire dei luoghi veneziani, come Torcello, antichissima cattedrale sepolta, coi suoi preziosi mosaici, in mezzo alle canne. Perduta bellezza, a cui sembrano intonarsi nella città dei Dogi, le altane brune, le pesanti e caratteristiche imposte di legno, infisse all’esterno, che rappresentano, in contrasto con la merlettata architettura veneziana, una robusta sopravvivenza della casa reale o palustre.
Segreta nostalgia di Venezia per la campagna, armonioso dissidio, intorno al quale non è il caso di insistere, ma che illumina la storia, le tradizioni, i costumi della Serenissima, nonché la durevolezza delle sue conquiste, anelanti alla terraferma. Le vele veneziane sono color terra e sospirano il porto. Stendardi religiosi e domestici fecero nascere, ovunque arrivarono, altrettante Venezie.
Penso che per fondare questa città c’è voluto molto legno e che i primi costruttori di Venezia dovettero essere dei boscaioli, tramutatisi, più tardi, in arsenalotti. Di ceppo latino, scendevano dalle ultime frontiere italiche, portando nel loro carattere qualche cosa di cocciuto e di nordico. Nello studio dell’elemento lagunare spiegarono un talento precocemente positivo e scientifico e furono grandi scavatori di vie d’acqua, come i Romani di vie terrestri; giacché la laguna, con le sue basse maree, lascerebbe spesso la città in secco se non ci fossero quei segreti canali che assicurano la continuità del traffico. Sulla via di Chioggia si può navigare, in talune ore del pomeriggio, fra due rive di sabbia, avendo davanti agli occhi la laguna abbassata e desolatissima come una sterminata salina.
Nei giorni di caligo le campane sparse in mezzo all’acqua, suonando tutte insieme, ininterrottamente, con voce più o meno affiochita dalla nebbia e dalla distanza, segnano la rotta al battello del  Lido, ai bastimenti, ai bragozzi che si dirigono a tentoni verso il mare aperto. E nulla è più dolce, più veramente veneziano, di queste invisibili campane che annunciano il pericolo e il maltempo. Così i Veneziani, gente ritiratissima, giunsero al mare e, da una situazione originariamente appartata e difensiva, nacque la loro potenza.
Fu allora che Venezia si rivestì di marmi, si adornò di statue, di colonne, di palazzi sfolgoranti. Le più preziose spoglie di Bisanzio concorsero ad abbellirla. Ma ciò che meraviglia maggiormente, in una città fabbricata nelle condizioni di suolo e d’ambiente, che tutti sanno selvosa e fragile come un canneto, sono certi edifici monumentali, talmente alti e massicci che noi tremiamo guardandoli, come se dovessero franare sotto i nostri occhi. Non è la terra che sorregge Venezia: è la tenace volontà, l’ardimento, l’affettuosa ostinazione di coloro che la costruirono, con una scienza molto simile a quella che si richiede per costruire una nave. E noi la vediamo galleggiare a somiglianza d’un capriccioso fiore marino. Ce la immaginiamo, talvolta, come il sogno meridiano d’un tritone.
Per mille vene capillari la laguna è legata al mare e Venezia ha la stessa vita faticosa e instabile della laguna che la pervade in ogni fibra. Le acque lagunari sembrano aver modellato nel corso dei secoli, con le loro pressioni sotterranee, il pavimento di San Marco, solennissima nave mistica o grotta piena di fulgori disciolti in un’atmosfera tenebrosa e marina.
Ci sono dei momenti che Venezia fa acqua da tutte le parti e se la barca dell’Evangelista non affonda, in quelle occasioni, è soltanto perchè si tratta di una barca apostolica. Alludo ai repentini allagamenti che si producono dal di dentro, attraverso i pori della città, quasi per un fenomeno di trasudamento. Possibili in tutte le stagioni, sono più frequenti d’inverno, quando i pompieri stanno sempre all’erta per fronteggiare i disastri per così dire, familiari, a cui i veneziani, abituati ai perigliosi traghetti di Canalazzo, nelle seratacce di piova o di bora usi a darsi una buona notte abbreviata e spicciativa da un ponte all’altro (“bona, bona”), come sotto l’urgenza del fortunale, si dimostrano preparatissimi. Che curioso spettacolo, allora, veder la gente andare in sandalo per Piazza san Marco! Quale allegro senso di pericolo scampato di dà, in certe mattine, uscendo in Piazza delle Mercerie, la presenza del ponte di legno sospeso fra le Procuratie nuove e le vecchie, a inondazione finita! Com’è divertente, in sostanza, vivere in una città così fluida, così immersa nell’acqua che perfino le donne veneziane fanno l’impressione di essere un po’ acquose. E’ acquosa e lattea la luna, a Venezia.
Mi recai a Venezia, in un’estate, per trascorrervi un paio di giorni. Ci rimasi tre anni. E non sembri uno scherzo, se affermo che nella mia decisione di stabilirmi per qualche tempo in questa città influì tantissimo il sapore della sua cucina marinaresca. Senza essere un buongustaio, ho sempre avuto una disposizione invincibile a giudicare un paese e magari una famiglia dal modo come vi si mangia; la qual cosa fa di me un ospite poco raccomandabile. Poiché dunque, da questo lato, Venezia non ha nulla da invidiare a nessun’altra città italiana, e vi si mangia comunemente bene anche nelle trattorie più modeste, non c’è da meravigliarsi che, grazie ad alcune vaghe e non ricercate sensazioni d’ordine gastronomico, io fossi portato ad abbandonarmi con piena fiducia al fascino veneziano, malgrado il cattivo odore dei canali, in certi giorni, e il caldo soffocante che faceva fermentare di notte, nella mia camera, la vernice dei mobili.
I Piombi di Venezia non sono una leggenda. Inoltre lo scirocco di questa città, associandosi ai cattivi odori che ho detto, è particolarmente deleterio. Ma il clima della laguna, un po’ lurido in estate, si fa improvvisamente lieve e puro d’autunno, quando Venezia è tutta lagunare, cioè priva di ogni inquietudine marina, e rivela il suo vero carattere di città nordica e fiabesca. Oh, i lunghi e dolci autunni veneziani!
L’estate se ne va bruscamente, senza lasciare strascichi di sorta. Cola a picco nei canali come una vecchia gondola logora. E ci si accorge del so passaggio del diradarsi dei turisti, che in numero sempre più esiguo occupano i tavoli dei caffè di Piazza san Marco, allineati fuori dalle Procuratie. In quelle file gloriose si sono fatti a un tratto dei vuoti melanconicissimi.  Ormai le poche persone che vi si attardano verso sera non sono più neppure dei turisti smarriti, ma clienti abituali, tipi del luogo, che si confusero, nei mesi estivi, con la grossa ondata turistica, per poi rimanere scoperti sulla gran piazza come gusci di riccio e ossi di seppia sulla spiaggia. Sembra che stiano lì a fare i conti della stagione, a raccoglierne i pettegolezzi, oppure a gustarne, secondo gli umori e le abitudini, l’ultimo sorso. Presto verrà il tempo che la sontuosa piazza, paradiso dei visitatori balneari, sarà un campo soleggiato ad uso delle balie e dei bambini. Intanto l’autunno veneziano s’accompagna a questo vasto senso di esodo e di solitudine inattesa. I crepuscoli scendono rapidi, soverchiamente bruni, sicché si direbbe che la città prende il lutto, per la partenza dei turisti, se non fosse che proprio allora si manifesta la sua vera vita.
(V. Cardarelli)

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