Dettati ortografici letture e poesie sull’Emilia ROMAGNA per la scuola primaria.

Cartina fisica
Confini: Mar Adriatico, Veneto, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Repubblica di San Marino.
Lagune: Valli di Comacchio
Monti: Appennino Settentrionale (Ligure, Tosco-Emiliano).
Cime più alte: Maggiorasca, Cusna, Cimone, Fumaiolo.
Valichi: di Cento Croci, della Cisa, del Cerreto, dell’Abetone, dei Mandrioli, di Verghereto.
Pianure: Padana.
Fiumi: Po, Reno con il suo affluente Santerno, Lamone, Montone, Savio, Rubicone, Marecchio con il suo affluente Uso. Affluenti di destra del Po: Trebbia, Taro, Parma, Enza, Secchia, Panaro.
Canali: Corsini.

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L’Emilia Romagna

L’Emilia trae il suo nome dalla lunga e diritta via Emilia, che Roma fece costruire, da Rimini a Piacenza, nel 187 aC.
Distesa obliquamente lungo il versante padano degli Appennini, dalle cui valli scendono numerosi affluenti del Po, l’Emilia è una regione fertile e in parte pianeggiante.
Al confine dell’Emilia con le Marche, svettano le tre torri del Castello di San Marino, che dall’alto del Monte Titano guarda la verde pianura della Romagna e, lontano, il Mar Adriatico.

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Vita economica

L’Emilia è una regione essenzialmente agricola. Ha boschi di castagni dall’Appennino, vigneti sulle colline, e abbondantissime colture in pianura: di grano, di barbabietole da zucchero, di granoturco, di canapa e di alberi da frutto. L’abbondanza dei foraggi permette l’allevamento intensivo dei bovini, dei cavalli e dei suini.
Nelle Valli di Comacchio sono importanti la piscicoltura e la pesca delle anguille.
Tra le industrie hanno raggiunto il massimo sviluppo quelle alimentari. Famosa è l’industria dei salumi (zamponi di  Modena, mortadella di Bologna), i pastifici (tortellini e tagliatelle), i caseifici (formaggio reggiano e parmigiano) e le industrie delle conserve di pomodoro nel Parmense e nel Piacentino.
Importanti sono anche le industrie chimiche e meccaniche, i canapifici e le fabbriche di inchiostri e di profumi.
I prodotti del sottosuolo, localizzati quasi tutti nella fascia più bassa dell’Appennino, sono lo zolfo, il gesso, la torba.
A Cortemaggiore vi sono ricchi giacimenti di petrolio e di metano.
Un’industria di notevole importanza è quella alberghiera, molto fiorente lungo il litorale adriatico. Durante l’estate le stazioni balneari delle province di Ferrara, Ravenna e Forlì sono meta di numerosi turisti, italiani e stranieri, che ritemprano la loro salute riposando sulle ampie ed assolate spiagge.
Nella regione, attraversata da molte e belle strade e da una fitta rete ferroviaria, il commercio è attivissimo.

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Province

L’Emilia Romagna è divisa in otto province.
Bologna, l’antica Felsina degli Etruschi, si adagia nella pianura, presso lo sbocco della Valle del Reno. Centro agricolo e industriale, è un nodo ferroviario importantissimo e sede di una celebre Università.
Ferrara, presso il Po, è al centro di una zona agricola bonificata, molto fertile. Fu sotto il dominio degli Estensi, come attestano i meravigliosi palazzi che ancor oggi abbelliscono la città.
Forlì, l’antico ‘Forum Livii’ (mercato di Livio), giace nella pianura romagnola, ai piedi dell’Appennino.
Modena sorge in mezzo a campagne rigogliosissime, allo sbocco delle valli percorse dalla Secchia e dal Panaro. Celebre è la torre del Duomo, detta la Ghirlandina.
Parma, la cui importanza è soprattutto agricola, vanta numerosi caseifici e conservifici. Nella provincia, a Busseto, nacque Giuseppe Verdi.
Piacenza, città sul Po, è l’anello di congiunzione tra l’Emilia Romagna e la Lombardia.
Ravenna, collegata al mare dal Canale Corsini, è famosa per i suoi monumenti bizantini e per la pineta, ricordata da Dante, che in questa città è sepolto.
Reggio Emilia è città agricola e industriale. Fu patria del poeta Ludovico Ariosto.

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Per il lavoro di ricerca

Come si presenta il territorio dell’Emilia Romagna?
Quali sono le caratteristiche principali della zona di pianura e della zona appenninica?
Se nell’Emilia ti volessi recare in Toscana, quali paesi o valichi dovresti superare?
Dove sono le valli di Comacchio e perchè sono note?
Come sono le comunicazioni in Emilia?
Quali sono le principali risorse economiche della regione?
Dove si estrae il metano?
Perchè è famosa Cortemaggiore?
Che cosa sono le salse?
Lungo le coste emiliane è molto praticata la pesca?
Perchè il nome di Faenza è conosciuto in tutto il mondo?
Ricerca notizie su tutti i capoluoghi di provincia dell’Emilia Romagna.
Come si chiama il piccolo Stato indipendente che si incunea fra le Marche e la provincia di Forlì? Quando nacque?
Quali sono le sue fonti di ricchezza?
Ricerca notizie sulla cucina emiliana e sulle usanze e tradizioni degli Emiliani.

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Le valli di Comacchio

Sulle Valli, quando cala la sera, i pensieri si intridono di ansie leggere e sembrano partecipare della solitudine immensa che il paesaggio intorno esprime. Un volo di rondini frulla per un poco sopra il capo; poi tutto ricade nel silenzio immoto della laguna. Le erbe e i canneti sembrano vivere una lunga, interminabile attesa; anche Spina, la città misteriosa, sepolta sotto le acque, attende di essere rivelata agli occhi dell’uomo. E’ un paesaggio tutto da scoprire, tutto da amare per la sua intatta bellezza non guastata dall’opera dell’uomo; lo sanno i cacciatori che scivolano sull’acqua nei piatti barchetti da valle in cerca d’un posto propizio alla caccia.

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L’Emilia Romagna

Deve il suo nome alla via Emilia, antica strada che la attraversa in tutta la sua ampiezza da Rimini a Piacenza, e che era stata aperta nel 187 aC dal console Emilio Lepido.
Dopo le invasioni barbariche divenne una provincia dell’Impero di Bisanzio (antico nome di Costantinopoli) ed ebbe in Ravenna la sua capitale.
Durante la dominazione bizantina fu chiamata Romania, ossia ‘terra di Roma’, la parte di questa regione corrisponde all’attuale Romagna.
Dopo la dominazione longobarda, la sua storia fu la storia delle sue città e dei rappresentanti delle grandi famiglie che riuscirono a imporvi la propria signoria: gli Estensi a Ferrara, i Bentivoglio a Bologna, i Da Polenta a Ravenna, i Malatesta a Rimini. Tali signorie, a cominciare dal secolo XVI, passarono a far parte dello stato Pontificio; oppure, come Modena, Reggio, Parma e Piacenza, si eressero a ducati, finché, nel 1860, Emilia e Romagna furono definitivamente annesse al Regno d’Italia.
(E. Poggi)

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Sguardo d’insieme

Da Piacenza a Rimini, dall’Appennino all’Adriatico, campi molto fertili, terra grassa, condotta a svariate colture, da una gente vigorosa, piena di gioia di vivere, l’Emilia Romagna è la dispensa dell’Italia; cereali, lino, frutta, bovini di razza pregiata, formaggi celebri, salumi e mortadelle bolognesi, vini profumati, pietanze e cucina note dovunque; una grande distesa acquitrinosa.
Le Valli di Comacchio, molto pescose; gore d’acqua stagnante, i maceri per la canapa e le saline; spiagge assolate, ampie, che si susseguono da Ravenna a Cervia, a Milano Marittima, a Cesenatico, a Bellaria, a Igea Marina, a Torre Pedrera, a Viserba, a Rimini, a Marebello, a Miramare, a Riccione, a Misano, a Cattolica, biancheggianti di moderne, confortevoli costruzioni, iridate di capanni, di tende e di ombrelloni, tra l’azzurro del mare ed il verde cupo delle pinete costiere; al centro della Regione la via Emilia, che si snoda dritta, come se fosse stata tracciata da un’immensa riga da disegno, che riunisce i centri più importanti , rendendo rapidi gli scambi, i trasporti, le comunicazioni, facendo da via principale al grande, simpatico, ospitale paese.
(M. Menicucci)

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Zona appenninica

La rudezza del clima, le difficoltà delle comunicazioni, la povertà del manto boscoso (castagni) e lo scarso rendimento delle colture e della pastorizia ha causato l’esodo della popolazione dalla montagna verso la vicina pianura. Molte case e molti terreni, pertanto, sono rimasti abbandonati.
Migliori sono le condizioni economiche della fascia sub-appenninica dotata di colture cerealicole e di vigneti (Lambrusco, Sangiovese, Albana).

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Zona di pianura

E’ tutta una zona di bonifica, frutto di un lavoro assiduo, che va dell’età romana ai nostri giorni. Chi la contempli dal finestrino del treno in corsa è colpito dall’incessante succedersi di campi, tutti di forma regolare, separati da filari di alberi e viti. Il paesaggio affascina con la varietà e la ricchezza delle sue coltivazioni. I contadini della pianura emiliano-romagnola vivono in case isolate nella campagna… Le abitazioni rurali constano di solito di due edifici, separati o affiancati, uno per la dimora della famiglia e uno adibito a stalla.
Questa terra è la prima per la produzione del frumento, la prima nella produzione della barbabietola da zucchero, ed occupa una notevole posizione nella coltivazione della vite, della frutta e degli ortaggi; sviluppatissimo è l’allevamento suino; nell’allevamento bovino è superata solo dalla Lombardia.
Tale ricchezza di prodotti dà vita ad una forte esportazione ed incrementa lavorazioni locali: conserve, ortaggi e frutta, caseifici, salumifici, distillerie e stabilimenti vinicoli.

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La Romagna

Romagna significa ‘piccola Roma’, perchè i Romani diedero grande importanza a questo lembo di spiaggia adriatica. La flotta imperiale aveva il suo porto nei pressi di Ravenna, che una volta si trovava quasi sulla riva del mare, che ora invece è lontano, a causa dell’interramento della costa.
E Ravenna, dopo Roma, fu la città più importante d’Italia. I bellissimi monumenti rimasti sono il segno della sua potenza e della sua ricchezza.
A Ravenna di trova la tomba del re Teodorico e poi quella di Dante Alighieri.

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Il Ferrarese

Tutto immerso nella pianura, il Ferrarese ha i suoi confini naturali nelle acque: a oriente l’Adriatico, a nord il Po, a sud il Reno. Ad occidente, dove è il lato di confine meno esteso, non ci sono fiumi a delimitare il territorio, ma il Panaro l’attraversa per un tratto diagonalmente. La provincia ferrarese, la cui altitudine è, in media, di quattro metri e mezzo sul livello del mare, trae dall’acqua non solo i suoi confini, ma la sua vita e la sua storia: storia di fiumi e di paludi, di canali collettori, di argini…
La parte di protagonista, in queste vicende di secoli, spetta al Po che, in questo tratto di pianura è ormai a breve distanza dal mare.
In tempi relativamente vicini (pare ancora nell’età romana) questa verde ed opulenta campagna era, press’a poco, un’enorme distesa di acquitrini dove i rami del grande fiume vagavano verso il mare trascinando con sé detriti: questi, depositandosi a lungo, fecero emergere alcune strisce di terra sulle quali si avventurarono i primi coloni.
Sembrerà strano che uomini si siano avventurati tra le paludi infide stabilendovi le dimore, quando ancora tante altre terre asciutte e disabitate avrebbero potuto offrire loro un insediamento più sicuro; ma c’è una ragione: l’acqua degli acquitrini, se obbligava ad una vita di dura lotta contro le sue insidie, d’altra parte assicurava una validissima difesa dai pericoli esterni.

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Il più grande nodo ferroviario d’Italia

Questo di Bologna è sicuramente il centro nevralgico della rete ferroviaria italiana, il nodo più importante a cui fanno capo tutte le comunicazioni che collegano le estreme regioni della penisola.
Il cuore del sistema circolatorio delle ferrovie è Bologna, in quel complesso di scali e di stazioni che formano il nodo ferroviario della grande città emiliana.
Come in una grande città esiste una via di circonvallazione che serve a dirottare il traffico dei veicoli pesanti e di transito, così anche il nodo bolognese dispone di una linea di circonvallazione, chiamata linea di cintura, che unisce direttamente la linea di Milano alla direttissima di Firenze non solo, ma mediante opportuni raccordi e bivi, allaccia fra di loro le linee di Verona, Venezia e Ancona.
(M. Righetti)

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Agricoltura

La pianura emiliana, ampia e bene irrigata, si presenta divisa in poderi di estensione notevole e fruttuosa; dall’alto, in una visione panoramica, appare ancora il reticolato dell’antica colonizzazione romana. Molto elevata è la produzione di cereali: primo fra questi il frumento, quindi il riso e il granoturco. Ottimi risultati dà la coltivazione delle patate e delle barbabietole da zucchero. Importante è la produzione della canapa. Anche la vite offre un prodotto abbondante (Lambrusco, Albana, Sangiovese): l’Emilia Romagna si pone al quarto posto (con la Toscana) tra le regioni vinicole.
Nella pianura alta e sui declivi collinari si ha una notevole produzione di pomodori e di frutta (mele e pere). Ricco è il patrimonio zootecnico, in particolare quello di bovini e suini.

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L’attività industriale

Un’agricoltura così varia e ricca offre l’avvio ad un’industria di trasformazione fra le prime in Italia: numerosi sono gli stabilimenti conservieri, lattiero-caseari (celebri i formaggi reggiani e parmigiani), tessili.
L’allevamento dei suini alimenta industrie di insaccati di fama mondiale (mortadelle, prosciutti, zamponi).
Oltre alle industrie alimentari vi sono attive industrie meccaniche agricole, di automobili di lusso (Ferrari, Maserati).
In molti centri emiliani sono sorte negli ultimi anni aziende per la produzione di calze, maglierie, calzature, i cui prodotti hanno invaso i mercati internazionali.
L’Emilia Romagna, povera di risorse idroelettriche, ha trovato nel metano una fonte di energia che ha dato slancio alle iniziative industriali. I pozzi di Cortemaggiore, presso Piacenza, distribuiscono metano a tutte le industrie della valle Padana e costituiscono la base di un’importante industria chimica per la produzione di fertilizzanti e gomma sintetica.
I turisti sono attratti dalle bellezze delle città storiche quali Parma o Ravenna, o Ferrara, e dalla stupenda linea di spiagge vaste e sabbiose, estese lungo tutta la costiera adriatica, dalle valli di Comacchio alle Marche. Centri de turismo balneare sono le città di Cervia, Cesenatico, Rimini, Riccione, Cattolica.
(Assereto-Zaina)

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I prosciutti vanno a balia a Langhirano
A prima vista il titolo può sembrare uno scherzo, ma non è così. Langhirano è un centro posto vicino al torrente Parma, e dalle sue case escono i migliori prosciutti dell’Emilia. Siccome i prosciutti dell’Emilia sono i migliori d’Italia, da Langhirano giungono i più succulenti prosciutti italiani alle mense dei buongustai. Può sembrare strano, ma è la verità.
Il prosciutto ha bisogno di una certa lavorazione e soprattutto di una lunga stagionatura, e in nessun luogo della valle padana esso asciuga, matura, si addolcisce e acquista profumo come a Langhirano.
Sicché in questo paese, sito a monte di Parma, dove cominciano a sollevarsi le prime colline dell’Appennino, non solo si lavorano tutti i prosciutti degli allevamenti suini locali, ma ne vengono inviate grandi quantità da fuori a stagionare, a guadagnare squisitezza.
Giungono dalle circostanti province emiliane, dalla bassa Lombardia, dalla Brianza. Langhirano è il posto di villeggiatura del prosciutto.
Queste pingui cosce suine di provenienza forestiera vengono chiamate prosciutti dati a balia. E qui anche i prosciutti meno nobili diventano vere leccornie.
Come ciò avvenga, e perchè avvenga qui e non altrove, rimane un mistero. Un felice clima, una strana salubrità dell’aria devono indiscutibilmente operare sui rosati prosciutti.
Visitare i luoghi di stagionatura è una visione sbalorditiva: in lunghissimi cameroni sono collocate, secondo la lunghezza, rastrelliere di legno, dalle quali pendono, simili a pere mostruose, miriadi di cosciotti. La lavorazione avviene in modo molto semplice, i prosciutti freschi vengono lavati con acqua tiepida e cosparsi di sale, messi in frigorifero, a zero gradi, per 30-40 giorni.
Non si usano droghe a Langhirano, ma unicamente sale, e ciò rende il prodotto più delicato e digeribile. Quindi si portano nei locali di stagionatura, dove devono prendere quanta più aria possibile.
Di notte e nei giorni di gelo si chiudono le finestre. La stagionatura si compie in circa cinque mesi, dopo di che i prosciutti sono pronti per essere consumati. Per ogni stagione, a Langhirano, vengono messi a balia non meno di 100.000 prosciutti,
(M. Carafoli)

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Le salse

Sulle ultime colline dell’Appennino Emiliano, in vicinanza della pianura, si osservano parecchi luoghi, specialmente nel Reggiano, dei curiosi mucchi di melma, mutabili di forma, ma non di rado assomiglianti a vulcani in miniatura. Sono le salse, altrimenti chiamate vulcani di fango: e mentre il primo nome ci richiama il fatto che il fango delle salse è leggermente salato, il secondo vuole accennare a manifestazioni eruttive.
Difatti le salse hanno di quando in quando le loro eruzioni; ma sono, direi, quasi eruzioni per burla: non materie infuocate, ma semplicemente acqua fangosa salata e melma viscida, talvolta odorante di petrolio, escono dalle bocche delle salse.
Coi veri vulcani, però, le salse non hanno niente a che fare. Il gas che esce terreno argilloso è metano che si può accendere con un fiammifero, ma non si incendia da sé nelle eruzioni delle salse. Col gas viene su l’acqua dal sottosuolo, ed essa imbeve il terreno, lo spappola, forma il fango che, accumulatosi, dà origine al conetto.
Insieme all’acqua viene su talora un po’ di petrolio che forma chiazze iridescenti. Del resto, non si deve credere che sempre si formi un monticello vulcanico in miniatura, poichè la fanghiglia può anche espandersi senza assumere forme particolari e definitive.
(A. Sestini)

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Metano in Emilia

Cortemaggiore, a oriente di Piacenza, nelle pianure, poco lontano dalla riva meridionale del Po, è oggi l’emblema del metano; sebbene altri giacimenti importanti si trovino in Lombardia, a nord del Po, a Caviaga (qui si aprì il primo pozzo), a Cornegliano, a Bordolano, a Ripalta e, in Emilia, a Correggio, a Imola, a Cotignola, ad Alfonsine, fino a Ravenna, dove si ha un giacimento di prima grandezza; quindici giacimenti in tutto, a una profondità media tra i 1600 e 1800 metri; e oltre 60 pozzi.
Il metano italiano, scoperto e messo in valore nel dopoguerra, è il più abbondante d’Europa, ed i metanodotti vanno avvolgendo l’Italia del nord in una rete, già fitta in Lombardia specie intorno a Milano, ben delineata nel Veneto, con rami che si spingono o stanno per spingersi a Bologna, a Torino, a Genova, a Domodossola, e perfino a Sondrio e a Trento.
L’immensa importanza di questa nuova sorgente di energia serve anzitutto le industrie e secondariamente l’autotrazione e i bisogni domestici.

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Comacchio e la pesca

Comacchio è una città stipata sopra isolotti che si alzano pochi decimetri sul livello del mare, tanto che non si sa neppure se sia più terra o più acqua. Da almeno millecinquecento anni vi abita una popolazione di pescatori, isolata, in mezzo a paludi salmastre. Nella piscicoltura, una volta assai fiorente, sta la principale risorsa di questi luoghi. La laguna  è popolata di anguille e di cefali. Durante i mesi di febbraio, marzo e aprile, in cui si aprono le comunicazioni al mare, entra nei vari campi della laguna un numero straordinario di pesciolini; e questa loro venuta è detta montata. Chiuse dopo quel tempo le chiaviche, i pesci che si sono rifugiati nella laguna vi rimangono fino a che, aumentando la salsedine delle acque per l’evaporazione estiva, non si risveglia in essi, ormai giunti alla maturità, l’istinto di ritornare al mare per incontrare un’acqua meno salata. Da questa circostanza si trae il massimo profitto per fare la pesca. Venuto il settembre davanti alle chiaviche di ciascun campo, si depongono dai vallanti i  lavorieri, che sono labirinti di canne e di filo di alluminio, forniti di una larga apertura dalla parte che guarda il campo vallivo e ristretti e chiusi dal lato opposto. Allora le chiaviche vengono aperte. L’acqua del mare penetra lentamente nei campi attraverso i lavorieri, e i pesci si affettano a correrle incontro, imprigionandosi da sé nei labirinti.

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L’arte della maiolica, ovvero Faenza

Tradotto in venti lingue differenti, il nome di Faenza significa ‘l’arte della maiolica’; questa è dunque la prova più evidente che gli artigiani faentini hanno raggiunto nell’arte della maiolica il massimo della perfezione.
I primi accenni di quest’arte risalgono al lontano 1142 e mai quest’artistica operosità è stata interrotta nel giro di otto secoli. Una decina di botteghe maiolicare, dotate di maestri di fama che supera le frontiere della Penisola, continua la tradizione dei vasai faentini (vasi, piatti, boccali, tazze, anfore).
Un pregiato Istituto d’Arte accoglie gli allievi di ogni regione d’Italia e dell’estero iniziandoli alla ricerca di sempre nuove forme d’arte e di nuovi e migliori mezzi di lavorazione.
Anche Imola, Bobbio e Sassuolo si distinguono nella lavorazione della ceramica.
Molti falegnami sono specializzati e specialisti nella lavorazione di mobili moderni o imitando vecchi stili.
Un po’ dappertutto bravi e raffinati artigiani del legno, del ferro battuto, della bulinatura del cuoio. Carpi e Mirandola vantano la lavorazione del truciolo per la fabbricazione di cappelli e altri oggetti; Castel san Pietro quella degli ombrelli, Budrio quella delle ocarine, Ciano d’Enza lavorazioni di vimini.
(G. Menicucci)

Province
Capoluogo della regione è Bologna, chiamata ‘la dotta’ per la sua famosa Università, che è la più antica d’Italia, e ‘la grassa’ per le sue note specialità alimentari. E’ cospicuo centro commerciale e industriale e importante nodo ferroviario e stradale. Vanta pregevoli monumenti, tra cui le chiese di san Petronio, di san Francesco e di san Domenico, il Palazzo del Podestà, la Fontana del Nettuno, le Torri pendenti degli Asinelli e della Garisenda.
Piacenza è attivo centro agricolo-commerciale, sede di numerose industrie e nodo di comunicazioni. Fra i suoi monumenti il più insigne è il Palazzo Comunale, detto ‘il Gotico’.
Parma è grande mercato di prodotti agricoli e sede di industrie alimentari e meccaniche. Celebri monumenti sono il Duomo e il Battistero.
Reggio nell’Emilia è importante centro agricolo-commerciale con notevoli industrie alimentari, meccaniche (costruzioni ferroviarie, macchine agricole, ecc.), chimiche. Monumenti degni di rilievo sono il Duomo e la Chiesa della Madonna della Ghiara.
Modena è grande mercato agricolo e centro di industrie alimentari, meccaniche (automobilistiche) e chimiche. Dei suoi monumenti  i più notevoli sono il Duomo romanico, con la bellissima torre della Ghirlandina, e il Palazzo Ducale. E’ sede dell’Accademia Militare.
Ferrara è situata su un ramo del delta del Po, detto Po di Volano, nel cuore di una zona fertilissima ed è sede di importanti industrie alimentari, chimiche e meccaniche. Conserva magnifici monumenti: la Cattedrale, il Castello Estense, il Palazzo dei Diamanti.
Ravenna è una delle più belle città d’Italia per le sue stupende opere d’arte. Particolarmente degne di nota sono: la Basilica di San Vitale e il Mausoleo di Galla Placida (con meravigliosi mosaici bizantini), il mausoleo di Teodorico e (poco lontano dalla città) la basilica di Sant’Apollinare in Classe. Ha un importante porto-canale ed è sede di grandi complessi industriali.
Forlì è il centro principale della Romagna, mercato di prodotti agricoli e sede di alcune industrie. I suoi più pregevoli monumenti sono il Duomo e la Chiesa di san Mercuriale.

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Bologna: la dotta, la grassa, la turrita

Tutti questi appellativi le calzano a meraviglia. Le nobili tradizioni di cultura, tenute sempre vive da otto secoli a questa parte dall’Università, che è la più antica d’Europa, la fecero chiamare la dotta. Le sue famose specialità gastronomiche, che vanno dalle tagliatelle e dai tortellini fino alla rosea mortadella, le diedero il nomignolo di grassa. Le duecento torri che dentellavano il panorama di Bologna all’epoca dei Comuni le valsero il titolo di turrita. Di queste torri innalzate nel XII e nel XIII secolo dai nobili bolognesi accanto al loro palazzo, come simbolo di indipendenza e vanto del casato, ben poche ne rimangono. Oggi le superstiti si contano sulle dita delle mani, ma fra esse ve ne sono due, quella degli Asinelli e la Garisenda, le famose torri pendenti, che sono considerate simbolo della città.
(G. Assereto)

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Bononia docet

‘Bononia docet’ si leggeva sulle monete che Bologna batteva; ed anche quando la moneta corrente non fu più quella coniata dalla zecca cittadina, Bologna continuò ad essere universalmente conosciuta come ‘la dotta’.
Il merito di questo epiteto è dovuto alla sua Università, la più antica dell’Europa; essa fin dalle origini richiamò nelle sue aule da ogni regione d’Europa studenti che si organizzavano in vere e proprie congregazioni e che portavano alla città, insieme ad un innegabile benessere economico, una nota caratteristica di gaiezza, tanto da far dire al Petrarca che ebbe occasione di fermarvisi come studente: “Non credo che mai sia stata e non sia città più libera e gioconda di Bologna”.
Ma le gaie brigate della gioventù studiosa  erano soltanto un aspetto marginale della società che gravitava intorno al famoso ‘Studio’. In verità, Bologna fu, per moltissimo tempo, insieme con Parigi, il centro più vivo della cultura europea; fu soprattutto il tempio del diritto romano che, dopo il silenzio seguito alla caduta dell’impero, risorgeva, ad opera di espertissimi ed appassionati glossatori, in tutta la ricchezza dei suoi concetti ed al quale tutti gli studiosi volevano attingere.
I famosi libri di Giustiniano, che in un primo tempo avevano trovato rifugio alla corte bizantina di Ravenna, furono poi trasportati a Bologna. Si ha notizia di un certo Pepone, ‘legis doctor’, che intorno al 1065 già interpretava i testi di diritto; ma tra i maestri antichi chi acquistò più chiara fama fu certamente il bolognese Irnerio, che formò scuola e che intorno a sé ebbe una scelta schiera di glossatori, così chiamati per il loro sapiente e paziente lavoro di commento (glossa) ai testi latini.
Bologna andava fiera di questi suoi studiosi; ne sono testimonianza le bellissime tombe che ad alcuni di essi furono costruite nel centro della città; presso le chiese di San Domenico e di San Francesco.
Accanto alla fiorentissima scuola di diritto si andò via via delineando anche una scuola di arti liberali ed un’altra ad indirizzo scientifico; e il complesso di tutte le scuole venne chiamato ‘Studio Generale’ e più tardi Università.
Fra i tanti uomini illustri che frequentarono, in ogni tempo, la scuola di Bologna ricordiamo: Dante, Petrarca, Copernico, Torquato Tasso, Marcello Malpighi, Luigi Galvani e Giovanni Pascoli.

La città etrusca di Misa
Da Bologna, risalendo la via per Pistoia, dopo Pontecchio si giunge a Marzabotto. Nelle vicinanze si trovava la città etrusca di Misa; di essa rimangono ruderi sparsi tra il verde e un profondo suggestivo silenzio domina intorno quasi a vegliare sul sonno millenario delle mura in rovina, dei resti dei templi, delle tombe preistoriche giacenti presso le acque d’un lago. Misa fu fondata nel Vi secolo aC dagli Etruschi e fu prospera città per due secoli finché fu distrutta dai Galli.

La cucina emiliana
In Emilia la cucina è un fatto complesso, un’improvvisazione continua, uno spettacolo meraviglioso: altrove, il piatto gustoso e raffinato appartiene soltanto alla sfera della mensa, al buon pranzo e alla buona cena;  a Bologna, invece, a Modena, a Parma la cucina abbraccia interessi più vasti ed è la nota saliente di un costume, il costume emiliano appunto. Il sentimento, la poesia fatalmente fioriscono attorno a una tavola imbandita, lo stesso amore non è amore se non è alimentato da lasagne, zamponi, tortelli e mortadella. Ne sa qualcosa Fagiolino, l’eroe della regione, il quale stornellando alla sua bella chiede sì un bacio e un sorriso, ma anche e soprattutto un manicaretto che anticipa e racchiude il paradiso. Non per nulla il tortellino nacque nel centro fisico e ideale dell’Emilia, a Castelfranco, ricalcato dirette su Venere: un oste guercio e bolognese, canta un poeta, imitando l’ombelico di Venere, l’arte di fare il tortellino apprese.
Accanto ai tortellini, godono meritata fama le tagliatelle, ricavate anch’esse nella tipica forma a nastro della sfoglia, e condite appunto col ragù alla bolognese. Tra i piatti, ecco lo zampone, ossia quella mirabile calza che è la zampa anteriore del suino ripiena di un impasto di carne magra e grassa in giusta proporzione: cotto a fuoco lento per cinque ore, viene servito su un letto o di lenticchie o di fagioli giganti bolliti e impastati poi con sugo, burro, dadi di prosciutto e punte di sedano e carote.
Ma l’Emilia è giustamente nota per i suoi salumi e soprattutto per quell’ineguagliabile poker che è vanto della provincia di Parma: il culatello di Zibello, il salame di Felino, la spalla di San Secondo e il prosciutto di Langhirano. Ai salumi si deve aggiungere il formaggio stagionato, il grana, che va per il mondo sotto il nome di parmigiano e di reggiano. I menù regionali hanno come naturale alleato il Lambrusco, il vino che ha a Sorbara la sua patria, riconoscibile per il profumo di viola, la spuma rosea e il gusto frizzantino.
(A. Ferruzza)

Usanze e tradizioni
Usanze e feste tradizionali si accompagnano sia in Emilia, sia in Romagna allo svolgimento dei più importanti lavori agricoli: la semina, la mietitura e la trebbiatura, la vendemmia. Usanze e credenze sono legate agli avvenimenti familiari, lieti o tristi, e ad ogni momento della vita.
Una bella usanza primaverile è quella dei grandi fuochi, detti le ‘focarine’ che vengono accesi dalla sera del 4 febbraio, giorno dedicato alla Madonna del Fuoco, fino ai primi di marzo. Con essi si vuole propiziare il bizzarro mese a favore dei campi e dei prossimi raccolti.
Bisogna far lume a marzo, a marzo birichino perchè sia più buono e ci tratti bene, e ci porti una spiga che dia a tutti il pane e una spiga che sia granita di grano‘ (Aldo Spallicci).
In occasione della mezza quaresima si ricorda a Forlì l’uso di portare burlescamente in trionfo, sopra un caro tirato da due torelli, un grande fantoccio, adorno di collane di frutti e salsicce, con un seguito di carri allegorici. La folla, al suo passaggio, rivolgeva al fantoccio domande e motteggi; e il fantoccio, per bocca di un uomo che vi era nascosto, rispondeva per le rime.
Un’altra allegra usanza della mezza quaresima è quella di segare la vecchia, un fantoccio in costume femminile anch’esso imbottito di frutta, salsicce ed altro. La ‘vecchia’, prima di essere segata, fra le acclamazioni della folla, che poi si precipiterà accapigliandosi a raccattare tutte le buone cose che cadono dal grembo del fantoccio, è condotta in corteo per le vie del paese.
Se durante il percorso la ‘vecchia’ dovesse fermarsi, ma per caso, davanti a una coppia di fidanzati, costoro ne sarebbero felici, traendone un buon auspicio per le loro prossime nozze.
Ma le tradizioni popolari, pure remote, vanno purtroppo scomparendo, come le feste carnevalesche, legate a figure di maschere locali (il dottor Balanzone, celebre per i suoi sproloqui) o derivate da antichi riti pagani (i fuochi purificati che solo in qualche parte dell’Appennino si accendono ancora in determinate occasioni).
Uno spettacolo teatrale tipico della Bassa Padana è quello dei burattini: in questa zona fiorirono nell’Ottocento le maggiori famiglie di burattinai girovaghi con le due maschere caratteristiche di Sandrone (contadino fanfarone, millantatore e pauroso) e di Fagiolino, astuto e generoso, sempre pronto a far giustizia col suo nodoso bastone.

Paesaggio bolognese
Alla fantasia del poeta si presenta il paesaggio bolognese, già a lui familiare. La natura risente della malinconia dell’autunno, con gli alberi spogli che rabbrividiscono ai primi geli; ma l’aspetto del paesaggio è ravvivato dallo scorrere lento delle acque, dal mosto in fermento, dal sole breve che terre e uomini si godono, dagli stormi degli uccelli migratori.
Improvvisa, la fantasia m’ha condotto per le strade
rettilinee del Bolognese, bordate di rami
freddolosi, toccati dall’ottobre, con prospettive
di persiane verdi allineate sulle facciate.
Il Reno si stacca dai monti con incantevoli
indugi e  prende spazio in pianura, alberi
e frutteti si spogliano con incredibile bellezza,
riposano al sole le terre. E’ il tempo
adesso che le cantine odorano di fermentazione
e il contadino esce senz’arnesi a guardare
forse se qualche fosso non scola. Le terre,
gli uomini il paese fortunato nelle adiacenza
del fiume, godono questo sole breve.
Gli uccelli son di passo. (R. Bacchelli)

Romagna
Il ricordo della terra di Romagna non s’è mai cancellato da cuore del poeta: lì egli trascorse i bei giorni dell’infanzia, correndo spensieratamente fra le stoppie, presso gli stagni, in mezzo al verde della campagna; lì lesse, da fanciullo, i poemi e le opere che lo trasportarono con l’immaginazione in mondi fantastici e lontani; lì, a contatto della bella natura, sentì germogliare nell’animo i primi sogni e i primi canti. Ma, all’improvviso, il ricordo del triste giorno in cui dovette lasciare la sua terra riscuote il poeta dal dolce incanto: mentre la bella visione svanisce, egli manda un accorato addio alla sua Romagna che non spera di rivedere mai più.

Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino: (1)
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino: (2)
sempre mi torna in cure il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta, (3)
cui tenne pure (4) il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. (5)
Là nelle stoppie (6) dove singhiozzando (7)
va la tacchina con l’altrui covata, (8)
presso gli stagni lustreggianti, (9) quando
lenta vi guazza l’anatra iridata, (10)
oh! fossi io teco; e perderci nel verde,
e di fra gli olmi, nido alle ghiandaie, (11)
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie; (12)
mentre il villano pone (13) dalle spalle
gobbe (14) la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache (15) stalle
la sua laboriosa lupinella. (16)
Da’ borghi sparsi le campagne (17) in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo (18), alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini. (19)
Già (20) m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio e un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino. (21)
Era il mio nido (22): dove, immobilmente,
io galoppava (23) con Guidon Selvaggio (24)
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio. (25)
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo (26) pel sognato alone, (27)
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia fra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema. (28)
E lunghi, e interminati, erano quelli (29)
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli
risa di donne, strepito di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive, (30)
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive;
gli altri sono poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura (31)
tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini, (32)
Romagna solatia (33), dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta. (G. Pascoli)

(1) Il villaggio a cui va il sorriso o il rimpianto del poeta è San Mauro di Romagna, il luogo dove egli nacque e abitò fin quando il padre fu amministratore della tenuta dei principi Torlonia. Oggi il paese si chiama San Mauro Pascoli. Severino è Severino Ferrari, poeta amico di Pascoli e del Carducci.
(2) Sul fondo azzurrino dell’orizzonte si profila la rocca di San Marino, un paesaggio che accompagna nell’andare il viandante.
(3) I Guidi e i Malatesta sono due famiglie che nel Medioevo signoreggiavano la Romagna.
(4) Che anche ebbe in suo dominio
(5) Passatore era chiamato il bandito romagnolo, Stefano Pelloni, le cui imprese incontrastate sulle strade e sui monti, avevano mosso la fantasia popolare, specialmente per taluni tratti di generosità. Probabilmente il soprannome di Passatore gli venne per il fatto che era barcaiolo e faceva il mestiere di traghettare le persone da una sponda all’altra dei corsi d’acqua.
(6) Paglia che resta sui campi dove si è mietuta la biada.
(7) Il verbo singhiozzando allude al suono gutturale e spezzato della tacchina.
(8) Coi pulcini nati da uova di gallina.
(9) Lucidi.
(10) Dai colori cangianti.
(11) La ghiandaia è un uccello di colore grigio rossiccio, che si nutre prevalentemente di ghiande.
(12) Il poeta vorrebbe trovarsi ancora nel verde della campagna; gli piacerebbe sentirla ancora trasalire al suo grido lanciato nel silenzio nelle ore meridiane.
(13) Depone.
(14) Fatte curve dalla quotidiana fatica.
(15) Che hanno scarsa luce, buie.
(16) La lupinella è una leguminosa da foraggio che le bestie assimilano dopo lunga masticazione.
(17) I rintocchi delle campane.
(18) Invitano all’ombra.
(19) Alla mensa del lavoratore animata dalla presenza dei bambini. L’immagine, densa e tenera, racchiude l’intraducibile meraviglia dell’infanzia.
(20) La rievocazione del paesaggio richiama alla fantasia del poeta le ore che egli trascorse in quei luoghi.
(21) Col vento, il pioppo stormiva e sembrava che godesse al fruscio delle fronde.
(22) In quella campagna, sotto l’ampia fioritura della mimosa, il poeta trascorreva ore di silenzio e di sogni. Si allude agli anni felici del Pascoli: quando  era ancora bambino e la casa non era stata toccata da lutti (la sorellina Ida di pochi mesi, morì nel 1862, quando il poeta aveva sette anni).
(23) Avverti la congiunzione del verbo ‘galoppava’  con l’avverbio che lo precede. Il fanciullo fantasticava e, mentre il corpo riposava immobilmente, la mente correva coi fantasmi delle prime letture.
(24) Guidon selvaggio è, come Astolfo, un personaggio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
(25) L’imperatore nell’eremitaggio è Napoleone nell’isola di Sant’Elena. Il Pascoli allude a un’altra delle sue prime letture: il Memoriale che Napoleone dettò negli anni della sua relegazione nell’isola.
(26) L’ippogrifo è un cavallo alato di cui parla l’Ariosto nel suo poema. Con l’ippogrifo Astolfo salì fino alla luna per recuperare il senno del paladino Orlando impazzito per la bella Angelica.
(27) La fascia luminosa di vapori che circonda la luna. Il poeta vuol dire che egli si levava con la fantasia, assieme all’ippogrifo, fino a quel puro mondo di sogni che è la luna.
(28) Canto, ma il Pascoli ha detto poema perchè quel gracido pareva avesse un significato più grande, quasi fosse il naturale accordo al suo lungo e giovanile fantasticare.
(29) Le voci della natura e le forme di persone e luoghi immaginari compongono alla fantasia favole meravigliose.
(30) Come rondini che si sono indugiate e sono state raggiunte dai primi freddi. Tutta la famiglia fu strappata da quel nido: il poeta costretto ad andare per il mondo, gli altri nella tomba.
(31) Nella stagione calda.
(32) Per non trovare la casa della fanciullezza e dei sogni occupata da gente estranea da persone che hanno fatto come il cuculo, il quale suole deporre le uova nel nido di altri uccelli.
(33) Piena di sole.

L’Università di Bologna
Molti erano gli stranieri che da ogni parte accorrevano agli studi di Bologna, e si dividevano fino in trentacinque nazioni diverse. Questi studenti stranieri godevano prerogative civili e, convocati dal rettore, costituivano un corpo che aveva voto nelle assemblee. Un sindaco annuo rappresentava in giudizio l’Università ed un notaio ne rogava gli atti. Ogni anno si eleggevano due tassatori, uno dal comune e uno dagli studenti, perchè fissassero il prezzo degli alloggi. Lo scolaro aveva la facoltà di rimanere tre anni nella casa prescelta al prezzo fissato, e il padrone che esigesse di più, o maltrattasse il pigionale, non poteva più dare albergo ad altri.
I professori, una volta all’ano, dovevano giurare obbedienza al rettore dell’Università: questo doveva essere letterato, celibe, di almeno venticinque anni e non appartenere a ordini religiosi. Nelle funzioni aveva precedenza di passo avanti ai vescovi e agli arcivescovi, eccetto quello di Bologna.
L’irrequietezza degli studenti agitò la repubblica bolognese. Talvolta gli scolari si ritirarono tutti in un’altra città, finché non si fosse acconsentito alle loro esorbitanti domande. Qualche altra volta emigravano tutti se Bologna era messa al bando dall’Imperatore, o scomunicata dal papa. Però la città che doveva agli studiosi incremento di vita e di ricchezza, cercava di allettarli con ogni sorta di favori. I professori furono esenti dal servizio militare, poi da ogni tassa. Quelli che venivano addottorati a Bologna, dovevano giurare  che non avrebbero insegnato altrove. Morte e confisca erano minacciate ai cittadini che sviassero uno scolaro da quell’Università, e così ai professori che fossero passati ad altra scuola prima che fosse scaduto l’obbligo assunto.
Alla prima neve che cadeva, gli studenti andavano alla cerca, e con quello che raccoglievano, facevano statue o ritratti ai professori più rinomati.
Il dottorato dava diritto d’insegnare; sei anni di studio si richiedevano per passare dottore in diritto canonico, otto in civile. Lo studente giurava di aver compito quel tempo, poi sosteneva un esame privato e uno pubblico. Nel privato doveva disputare sopra due tesi assegnate davanti all’arcidiacono e al collegio dei dottori. L’esame pubblico si teneva con gran pompa nella cattedrale, dove il licenziando recitava un discorso ed esponeva una tesi, contro cui gli studenti potevano argomentare. Poi l’arcivescovo, o in sua vece un dottore, pronunciava l’encomio, acclamando dottore l’esaminato al quale si davano il libro, l’anello, il berretto e le insegne dottorali.
Il corso degli studi durava dal 19 novembre al 7 settembre: e ogni giovedì era vacanza, purché nella settimana non cadesse altra festa.
(O. Pio)

Il parmigiano reggiano
Il formaggio granoso e profumato che si acquista in tutta Italia come grana o come parmigiano è prodotto in realtà in una zona assai vasta, che esula dai confini della provincia di Parma, e si estende fino a Reggio, a Modena, a Bologna. Le qualità più pregiate, tuttavia, sono quelle di Parma e di Reggio; fra queste due città si è svolta nel passato un’accesa polemica per decidere quale avesse più diritto a legare il suo nome al prezioso prodotto. La contesa è stata risolta con piena soddisfazione di ambo le parti; le forme recano infatti un doppio marchio: parmigiano-reggiano su una faccia, e reggiano-parmigiano sull’altra.
La gente però continua a chiedere imperterrita: “Mi dia un etto di parmigiano” ed altrettanto imperterrito il negoziante consegna, sotto questa etichetta universale, formaggi di Parma e di Reggio, ma più spesso di Mantova, di Lodi e di Cremona.
Secondo i competenti, il parmigiano sarebbe nato nella valle dell’Enza, che oggi funge da confine fra Parmense e Reggiano, ma il suo commercio gravitava anticamente su Parma. Parma infatti era famosa fin dall’epoca romana per la squisita qualità dei suoi formaggi; e il Boccaccio, descrivendo  il paese di Bengodi, vi colloca una montagna di formaggio parmigiano:
… c’era una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavano genti che nessuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gettavano giù: e chi più ne pigliava più ne aveva: e lì vicino scorreva un fiumiciattolo di vernaccia, della migliore, senza un solo goccio d’acqua.
La descrizione, del resto, potrebbe riferirsi per intero a Parma, dove la ghiotta cucina è sempre stata una tradizione ed un’arte.
Ancor oggi, le forme di parmigiano si fabbricano a mano: ciascuna di esse rappresenta il prodotto della coagulazione di 4-6 ettolitri di latte, e la sua stagionatura dovrebbe durare un periodo di 3 o 4 anni. In realtà, per non bloccare così a lungo ingenti capitali, la si accelera artificialmente con le stufe, riducendola ad un solo anno. Durante questo periodo, le forme sono sottoposte  ad un continuo controllo da parte di esperti che girano per i magazzini, le annusano, le battono con un piccolo martello porgendo attentamente l’orecchio, ne estraggono un assaggio con sottili trivelli. E il valore di questi depositi è talmente elevato che le banche, per garantirsi dei capitali prestati ai caseifici, effettuano anch’esse periodici controlli.
Quando la stagionatura è terminata, le forme partono per le destinazioni più varie, e compaiono sulla nostra tavola come formaggio da dessert o formaggio grattugiato.

I calanchi
Percorrendo la via Emilia che da Bologna ci porta a Rimini possiamo osservare uno strano paesaggio, che si ripete più e più volte lungo la fascia del sub-appennino. Ci troviamo davanti a franamenti del tutto particolari, a tante piccole vallette di terra nuda, che formano i noti calanchi. Qui il quadro è in prevalenza grigio, cinereo, brullo, manca perfino l’erba. La zona è pressoché impraticabile, ad ogni passo la terra si sgretola e cede, o, in caso di pioggia, si trasforma in fango tenacissimo e scivoloso. Quei pochi casolari che scorgiamo si tengono tutti sugli sproni o sui pendii più aperti, lontani il più possibile dalla minaccia delle frane e dello smottamento.
Due fattori si sono dati qui la mano per operare la trasformazione di quelli che un tempo erano dolci e verdi pendii: il terreno argilloso e le acque piovane. E’ noto che l’argilla è una roccia originata dall’ammasso di minutissimo detrito proveniente a sua volta dalla disgregazione di altre rocce; una specie di compatto fango secco, che a contatto dell’acqua si trasforma in una massa pastosa e modellabile. Essendo l’argilla un roccia impermeabile, la pioggia non va ad infilarsi in profondità ma scorre ed erode la superficie, formando nel terreno tante piccole incisioni che col tempo si approfondiscono sempre più e si allargano fino a formare gole e vallecole, una vicina all’altra, separate solo da sottili lingue di terra, che vanno sempre più assottigliandosi sino a scomparire del tutto.
Così tante colline se ne vanno, le frane si succedono alle frane, a poco a poco l’acqua di dilavamento porta alla pianura una massa di terreno fangoso, lasciando un quadro di desolazione sui pendii, erosi.
La zona dei calanchi, diventata impraticabile, improduttiva, pericolosa, crea attorno a sé il deserto, perchè tutti  la sfuggono.
Durante il nostro viaggio per l’Italia avremo modo di sostare ogni tanto davanti a rocce diverse (graniti, porfidi, calcari,…) alla fine poi si potrà riunirle in un quadro completo per avere una visione generale dei materiali che costituiscono la crosta terrestre. Ora consideriamo l’argilla, roccia diffusissima non solo in Italia, ma in tante parti del mondo.
Delle tre grandi classi in cui sono divise le rocce (sedimentarie, magmatiche, metamorfiche) l’argilla appartiene alla prima. E’ cioè una roccia che, come tante altre (marna, conglomerati, arenaria, marmo, …) ha avuto origine sul fondo del mare. Millenni e millenni or sono, i fiumi scaricarono  in mare ciottoli, sabbia e fanghiglia che si depositarono in tanti strati. Col passar del tempo questi strati si indurirono, si solidificarono fino a tramutarsi in dura roccia.
Come poi l’argilla e tutte le altre rocce sedimentarie  siano emerse dal mare sino a formare l’ossatura di colline e montagne, è una curiosità che potrete soddisfare poi. Per ora vi basti sapere che durante il tempo in cui si è formata la crosta terrestre (cioè durante le ere geologiche) sono accaduti immani sconvolgimenti: terre e mari si sono spostati, uno strato si è accavallato all’altro, terremoti e vulcani hanno agito con particolare violenza, insomma c’è stata un’incessante modifica. Del resto il mutamento continua anche oggi, benchè lentissimo e poco appariscente.
L’argilla dei nostri calanchi è dunque fango indurito, costituito da minutissimi detriti, assai più fini dei granellini di sabbia. Assume color grigio e talora giallastro o rossiccio.
Cave di argilla si trovano ovunque, perchè l’uomo ha bisogno di essa per tanti suoi lavori (laterizi, ceramiche,…). Anche voi la adoperate per tanti lavoretti che solitamente dite ‘fatti di creta’.

Curiosità su Ferrara
Perchè Porto Garibaldi ha questo nome? Quando cadde la Repubblica Romana nel 1849, Garibaldi tentò di raggiungere Venezia, braccato dagli Austriaci. In località Magnavacca, il colonnello Nino Bonnet salvò l’eroe, che stava per cadere nelle mani dei suoi acerrimi nemici. Poi, dopo la morte di Anita, avvenuta nella fattoria delle Mandiole, Garibaldi, con l’aiuto del sacerdote don Giovanni Verità, riuscì a raggiungere la Toscana e a mettersi in salvo. A ricordo del fatto, Magnavacca fu denominato Porto Garibaldi, e attualmente è una frequentata stazione balneare.
L’arte della stampa è antichissima a Ferrara e, nei secoli XV – XVI, numerosi furono i tipografi che operarono in città. Il primo fu un francese: Andrè Beaufort (nelle edizioni era impresso Andreas Belfortis Gallus) che lavorò fin dal 1471, stampando ‘De variis loquendi figuris’ di Agostino Dati.
L’Orlando Furioso fu stampato da Giovanni Mazzocchi nel 1516; la prima edizione nella stesura di 46 canti, su impressa invece nel 1532 da Francesco Rossi. Operava a Ferrara anche una stamperia ebraica, di Abraham Usque, che nel 1553 pubblicò una ‘Biblia en lengua espanola’.
La Bibbia di Borso d’Este è uno dei manoscritti più preziosi, costituito da due volumi di circa 1200 pagine complessive, finemente miniate da Taddeo Crivelli, Francesco Russi e da altri. Il lavoro di decorazione, iniziato nel 1455, durò più di sette anni. L’intera Bibbia scritta dal calligrafo milanese Pietro Paolo Marone, costò 1375 ducati. Attualmente si trova a Modena, nella biblioteca Estense, dove fu portata quando la famiglia d’Este dovette rinunciare a Ferrara.
Sotto un piccolo porticato in un cortiletto interno del Palazzo di Ludovico il Moro, si possono ammirare due imbarcazioni rinvenute nel 1948 negli scavi di Valle Isola, presso Comacchio. Sono grandi piroghe dalla linea irregolare, scavate in due massicci tronchi di rovere, che il tempo  ha scrostato e annerito, lunghe rispettivamente 14,5 metri e 12,7 metri. Il tipo di imbarcazione è assai arcaico, potendo risalire all’età del bronzo; tuttavia nel delta del Po e nella zona lagunare veneta si continuò fino all’età tardo-romana a costruire barche di questo tipo. A quest’epoca appartengono forse le nostre.
Trovandoti in gita a Cento dovresti visitare la Pinacoteca, nella quale è conservato il bell’affresco del Guercino ‘La pace’, staccato dal Palazzo Falzoni-Gallerani, dove l’artista lo dipinse. Altri affreschi, sempre del Guercino, si possono ammirare nella quattrocentesca Casa Pannini e nella Chiesa di Santa Maria del Rosario.
Non abbandonare però la città senza aver fatto una passeggiata fino a Villa Giovannina, la gemma di Cento, distante circa due chilometri. La villa, ‘palazzo cinto da muraglie, con ponte levatoio e fosse intorno’, trae il nome dal facoltoso signore Giovanni II Bentivoglio che la volle edificare, e conserva in numerose sale preziosi fregi e affreschi dell’immancabile Guercino, che raffigurano episodi dell’Orlando Furioso, della Gerusalemme e del Pastor fido.
Partendo da San Benedetto in Alpe, in circa due ore di cammino si può fare una magnifica passeggiata ai Romiti. E’ una località suggestiva, in cui si possono ammirare gli stupendi orridi detti dell’ ‘Acqua cheta’. Ai Romiti esisteva un antico monastero benedettino nel quale fu certamente ospitato Dante. Infatti, nelle immediate vicinanze vi è una cascata che ispirò al poeta i seguenti versi:
“… quel fiume ch’ha proprio cammino
prima da Monte Verso inver levante,
dalla sinistra costa d’Appennino
che si chiama Acquaqueta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
dell’Alpe per cadere ad una scesa”. (Inferno XVI, 94-101)
Settecento anni or sono a Rimini gli abitanti erano divisi in Guelfi e Ghibellini, per cui la loro principale occupazione era quella di combattersi. Giunse allora tra i Riminesi un umile fraticello a parlare di pace e di perdono, di amore. Ma la gente covava nel cuore l’odio e non aveva voglia di ascoltarlo. Il fraticello, allora, si diresse sulle rive della Marecchia e si mise a predicare ai… pesci. Sì, proprio ai pesci, i quali accorsero numerosi e, col musetto fuori dell’acqua stettero ad ascoltarlo. La voce del prodigio si sparse nella città, e la stessa gente che prima non aveva voluto ascoltare il fraticello accorreva ora in folla a sentire la sua parola ispirata. Dimenticavo di dire che l’umile fraticello era sant’Antonio da Padova.
La cittadina di Bertinoro, fondata dai Romani, vana la fama di regina dell’ospitalità. Sulla sua piazza fa ancora bella mostra di sé la Colonna delle anelle, fatta erigere dal conte del luogo nel secolo XIII. Nel Medioevo quando il forestiero entrava in paese, legava le redini del suo cavallo ad uno degli anelli infissi nella colonna, scegliendo in tal modo il suo ospite. Ad ogni anello corrispondeva lo stemma di una famiglia nobile del luogo, che accoglieva il visitatore con generosità e onore.
Ancor oggi a Bertinoro si celebra la giornata dell’ospitalità; quindi, se giungi da lontano, puoi scegliere come un tempo il tuo ospite, prendendo a caso un invito legato con un cordone azzurro ai famosi anelli della colonna.

Curiosità su Reggio Emilia
A Reggio, fuori del Palazzo Comunale è permanentemente esposto per voto unanime del Consiglio Comunale del 29 dicembre 1922, il vessillo tricolore, sotto cui sta scritto : “Qui dove nacque, per sempre”.
Assai diffuso a Reggio Emilia e nel territorio è l’allevamento di piccioni viaggiatori (razze reggiana e triganina). L’uso di far volare i colombi da torricelle sui tetti delle case è antichissimo e se ne trova menzione sin dal XIV secolo. Varie sono qui le Società colombofile, federate in un’associazione provinciale.

Curiosità su Ravenna
Alcuni paesi nei dintorni di Ravenna hanno derivato il loro nome da alcune frasi pronunciate dall’imperatrice Galla Placidia. Si narra che durante una passeggiata a cavallo, elle giungesse accaldata in una località percorsa dal Ronco e che desiderasse bagnarsi in esso. Quando uscì ristorata dalle acque disse: “Questo luogo si chiamerà Bagnola”. E così avvenne. Arrivò poi in un altro paesetto i cui abitanti offrirono brocche di bionda albana alla sovrana. Galla Placidia  bevve avidamente e disse: “Converrebbe berti in oro!”. E il paese divenne Bertinoro. Così Bevano deve il suo nome al coro di grida al seguito di Galla: “Beviamo! Beviamo!”.
Secondo la tradizione la basilica di San Giovanni Evangelista è stata fatta innalzare da Galla Placidia per sciogliere un voto fatto durante la burrasca che la colpì in mare durante il suo viaggio da Bisanzio a Ravenna. Si dice anche che gli avvallamenti presentati dal pavimento della basilica furono voluti espressamente da Galla per ricordare la tempesta a cui era miracolosamente sfuggita.
E’ tradizione che la campana della Dolorosa, una delle campane di San Giovanni Evangelista abbia una voce dolce e triste. E’ questa la campana di Berta, figlia infelice del famoso fonditore Roberto Sassone, che si dice abbia gettato nel bronzo incandescente, pronto per la colata della campana, la grande collana d’oro lasciatale dal promesso sposo Federico Di Barbenga, assassinato alla vigilia delle nozze. Secondo altri non l’oro ma le lacrime di Berta diedero alla campana il timbro mesto e soave.
Una secolare gelosia esiste tra Brisighella e Fognano. Si narra che in una festa da ballo i cittadini di Brisighella non volevano ammettere nessuno degli odiati abitanti di Fognano e perciò ricorsero ad uno stratagemma: sulla soglia della sala da ballo c’era, per terra, quel buco che serve per fermarvi il paletto inferiore della porta; a chi si accingeva ad entrare, due Brisighellati chiedevano a bruciapelo, indicando il buco: “Che cos’è questo?”. Se l’ospite rispondeva: “L’è un bus” (dialetto del paese) lo facevano entrare; se invece, colto alla sprovvista, confessava: “L’è un boghèn” (dialetto di Fognano), “Passa fura t’se d’Fognèn!”, gli si gridava, rimandandolo scornato!

Bologna
Una torre snella, sottilissima, con un piccolo grappolo aereo di merlature. Più piccola, accanto a lei, un’altra torre, obliqua, che pare cerchi protezione nella sorella più alta, esile come uno stelo: la Garisenda, e la Torre che ha un nome che fa sorridere; la Torre degli Asinelli. Bologna rossa, dai grandi portici fulvi, color dell’estate.
(O. Vergani)

Ravenna
Forlì ti si annuncia con due altissime torri, una sormontata da una guglia, l’altra quadrata: Ferrara con un castello che pare incastrato nel terreno: Ravenna, invece, pare si voglia diluire nell’atmosfera dei tramonti sotto un cielo sterminato. Oltre viali di alberi, canali pacati e case silenziose, tu intravedi pinete senza fondo, dune già di sabbie ed ora fertili di messi, chiese d’oro e sepolcreti imperiali, quasi che tu possa scoprire sarcofaghi e diademi sotto il fango mortale delle alluvioni e dei secoli.
La città non ti viene incontro con le braccia aperte delle sue strade; ma se ne sta raccolta, come dentro la corazza della sua storia, muta, discreta, solenne quasi che la ricchezza del suo passato, l’immensità della sua gloria, l’orgoglio di tutto il suo destino l’avessero resa più superba di quanto non si convenga. Cinta di prati e di cipressi, di canali e di argini; inerte di una staticità di secoli, sbiancata dalle guerre e dalla storia; ferma in un assopimento cui una gloria senza misura dà come l’immobilità di scomparse liturgie, ma con una fisionomia così solenne e grande che non puoi fare a meno di restare attonito e colpito.
(C. Di Marzio)

Comacchio
Al di là del canale si apriva la via di Comacchio: un gran nastro che biancicava ancora, snodandosi nella tenebra purpurea; purpurea perchè la via corre fra le acque della valle o laguna, e queste erano così imbevute di sole che parevano come colorate di sangue; e in mezzo a quel rosso tragico delle acque immote, spiccava la linea nera, fastigiata nelle sue torri, della città di Comacchio. Un castello tragico! Una scena da innamorare uno scenografo! Il Dorè avrebbe invidiato quel paesaggio per i suoi fantastici disegni! L’Ariosto l’avrebbe popolato di maghi e di fate. Era semplicemente la patria delle anguille.
(A. Panzini)

Il lido dell’assolata Romagna
Da lontano, anche da molto lontano, vengono qui i bagnanti, preferendo sovente il lido dell’assolata Romagna ad altre spiagge più a portata di casa, ma non così accoglienti e ridenti. Qui si scende nell’acqua percorrendo un lievissimo piano inclinato, senza rocce pericolose e senza gorghi traditori; si arriva alla linea dove l’onda si infrange con cavalcate impetuose di spuma, e ancora si tocca, perchè la spiaggia è regolare e prudente. Nelle mattinate prive di vento il velo marino è teso e non lo sdrucisce una sbavatura. Gioia semplice ma profonda è quella di navigare coi silenziosi mosconi, correndo al largo, dove lo scenario delle colline si ingrandisce e dove è dolce fantasticare sulla celeste vaghezza di San Marino, faro senza luce per l’orientamento dei pescatori.
Sul lido sono le piccole barche ancorate, che l’acqua schiaffeggia. I paesani più vecchi, che non vanno in mare con le paranze, pescano dalla riva, attaccati alla corda della tratta: tira e tira, puntando sei o sette paia di piedi sull’umida rena, l’estremità della rete, calata in mare ad arco, si avvicina sempre più all’altro gruppo di pescatori, che s’affatica all’opposta cima. Il pesce è al centro della rete, in un’insaccatura che giungerà a terra preceduta dai guizzi furiosi della preda scintillante, accortasi che il pericolo aumenta col calare del livello dell’acqua. A cattura ultimata resta sul lido, disseminato di orme umane, qualche asteria o qualche cavalluccio marino, curiosità degli sfaccendati e delizia dei bimbi.
(G. Tibalducci)

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