Dettati ortografici IL GRANO, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
Il campo, di lontano, appare come una distesa di pallido verde. Ci avviciniamo, raggiungiamo la proda; vi crescono ciuffi di erbe nuove, che si fanno strada fra i fuscelli secchi, rimasti per tutto l’inverno sul terreno. Il campo è vasto: in righe dritte, ben allineati, si levano gli steli, di un color verde ancora un po’ tenero, ma già vigorosi. Si direbbero, ora, steli d’erba senza nome, ma noi sappiamo quanto invece siano preziosi. Non si calpesti nemmeno uno di quegli steli. Essi cresceranno, metteranno spighe; al sole di giugno offriranno la messe del bel frumento dorato. E, più tardi, diventeranno pane, saranno il dono quotidiano che pare benedizione alle mense frugali.
Un mattino di primavera, un germoglio verde mise la testina fuori della terra umida. Il sole splendeva così caldo che la terra fumava. E su in alto nell’azzurro cielo, un immenso stuolo di allodole cantava. Il chicco di grano si guardò intorno inebriato. Era proprio tornato in vita, rivedeva il sole e sentiva cantare le allodole. Ricominciava a vivere. E non era solo, perchè intorno a lui, nel campo, vedeva altri verdi germogli, un esercito intero, e in esse riconobbe i suoi fratelli. Allora la giovane pianticella si sentì invasa dalla gioia di esistere e le parve di dovere, in atto di pura riconoscenza, alzarsi fino al cielo e accarezzarlo con le sue foglie. (G. Joergensen)
Il grano è alto. La spiga è fatta e ondeggia al vento con le sue lunghe ariste e i chicchi bene allineati. Fra poco sarà pesante, piegherà il capo, diverrà tutta bionda e turgida. Allora la falce verrà a mieterla per il pane di domani. (B. Ardesi)
Un’estate senza le spighe che dondolano sotto la spinta del vento, non è un’estate. Proprio così: la messe bionda è il simbolo di questa stagione dalle lunghe giornate dilatate dal sole abbagliante. Otto mesi fa, i solchi erano aperti a ricevere il seme, oggi gli uomini si recano a raccogliere i frutti della terra generosa. (N. Nason)
Guarda com’è bella! Il sole l’ha dorata. I suoi chicchi sono disposti con ordine e ciascuno è coperto di leggere squame. Tutti hanno un ago sottile. Si chiama arista ed è il pugnale che li difende dagli uccelli troppo golosi. I suoi chicchi sono numerosi e vengono tutti da quell’unico che fu seminato nell’autunno. Ricordi? (D. Scotti)
La giovane sposa, col cesto sul capo, si affretta a portare la cena ai lavoratori. Stende la tovaglia sopra la terra; leva dal cesto il grande piatto della lattuga con le cipolle fresche; e intorno dispone le forcine, e i grossi pani e i fiaschi del vino acidetto. Riposano gli uomini, riposa la terra. (A. Panzini)
Ritto in mezzo al campo, stava lo spaventapasseri. Portava un cappello vecchio, una camicia, che un tempo doveva essere stata bianca, un paio di calzoni rattoppati e un fazzoletto rosso intorno al collo. Era solo lo spaventapasseri. (G. Ajmone)
Il campo di grano ondeggia al passare del vento; sembra un mare d’oro. Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora pochi giorni, e raccoglierà il frutto delle sue fatiche. Ancora pochi giorni, ed anch’io spero di ricevere il compenso del mio lavoro: la promozione e la felicità delle vacanze. (M. Frati)
Sembra che le cicale nascoste fra gli alberi invochino il sole, perchè non le bruci vive. Non si muove una foglia; in lontananza le case della campagna tremolano nella gran luce. In quest’ora nessuno si azzarda a lasciare il fresco rifugio delle stanze. Soltanto un carro, laggiù, rotola all’ombra dei pioppi, lungo il canale. Il rumore delle ruote riempie tutta la campagna insieme con il frinire pazzo delle cicale ed al cinguettio continuo dei passeri. Poi, una mattina all’alba, sono cominciati i lavori della trebbiatura: sull’aia il gran polverone glorioso nel quale si muovono le figure brune dei contadini. Il canto delle cicale, sui pioppi del torrente, è soverchiato dall’iroso frastuono della trebbiatrice. Attorno al motore caldissimo, puzzolente d’olio e di nafta, si aggira il meccanico, asciugandosi ogni tanto i rivoli di sudore che gli scendono per la nuca e sul viso. Il sole si arrampica su per l’arco del cielo e l’afa comincia a gravare sui campi. Verso mezzogiorno i contadini si rifugeranno all’ombra del portico, per ristorarsi un poco. (A. Lugli)
Il frumento, questa pianta benedetta che di dà il pane, porta la sua pesante spiga in cima a un fusto abbastanza lungo per allontanare i chicchi dalla polvere del terreno, abbastanza sottile per crescere in ciuffi folti senza dar noia ai vicini, abbastanza robusto per sostenere il peso dei semi, abbastanza elastico per piegarsi al vento senza rompersi. Questo insieme di qualità preziose è dato dalla forma speciale della paglia. Invece di farsi un fusto pieno, il frumento se lo fa vuoto. (E. Fabre)
il grano, con un impeto di forza, si affretta a compiere il ciclo della sua breve vita, finchè nei giorni di giugno le spighe si piegheranno. La rondine pare ripetere col suo grido stridente all’uomo: “Lavora, lavora il tuo grano, rincalza il crespo, strappa le erbacce”. La lucciola risplende di prima sera, volando silenziosa per tutta la distesa del grano; e la cicala, poi, canta nei grandi pomeriggi estivi sopra le spighe fiorenti. La rondine, la lucciola, la cicala accompagnano la vita del grano. E così tre fiori fanno al granaio ghirlanda: il giglio dei campi, i fiordalisi e i papaveri di fiamma. (A. Panzini)
Guardate la spiga di grano: ha in capo una corona di cento punte. E’ davvero la regina dei campi. Tutte le altre biade, tutti gli altri frutti sono meno belli di lei. E’ la piuma d’oro della terra. Essa è la prediletta del contadino che le presta le sue fatiche più dure. Ara con il pesante aratro per fare al seme un letto soffice e profondo, per difenderlo dal gelo. L’aiuta a crescere rompendo con la zappa la crosta della terra, che l’inverno ha indurito. Le dà il nutrimento di concime, perchè venga su robusta. E quando è fatta adulta, trema per lei se vede passare nel cielo una nuvola nera. Matura e dorata, egli va a raccoglierla e per tagliarla l’abbraccia e si china un poco come per dirle: “Perdonami se ti faccio male. Lo sai che ti voglio bene”. (R. Pezzani)
I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è una spiga. Il vento li agita: i soldatini sembrano correre nel campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda al margine del solco col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (N. Salvaneschi)
Mi ricordo di aver passeggiato, quando è vicino il raccolto, per le campagne piene di frumento già maturo e bronzino. Sentivo nell’aria un odore di pane fresco e il contadino mi diceva, con l’aria di chi possiede un gran segreto, che anche per quell’anno non si sarebbe morti di fame. Infatti bastava guardar giù per vedere un mare di spighe, fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzogiorno, piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e mandare scintillamenti, come vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo, cresce il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita; ronzano i mosconi, si alzano dalla strada nuvoli di polvere e schiamazzano centomila cicale o più, al chiasso che fanno. (E. De Marchi)
Si avvicinano i giorni della mietitura: essi hanno una solennità di attesa. Per le campagne non si parla d’altro. Un gran rito si compie. Fluttuano ancora per i campi le spighe con lieve fruscio di seta e un balenare di verde. Il granello, levato del suo involucro e spremuto tra le dita, è ancora un umore bianco. (A. Panzini)
Dice il proverbio: “Giugno, la falce in pugno”. Per fare cosa? Per mietere il grano, che ormai è maturo. Quanta fatica è costato! Il contadino ha arato il campo, lo ha seminato, concimato, ripulito dalle erbacce. Ma ora è ripagato con tanto oro. Il grano maturo sembra proprio oro. E’ più prezioso dell’oro. L’oro non si mangia, ma col grano si fa il pane, che è il nutrimento di tutti. (P. Bargellini)
Di fronte a me la collina tocca la curva linea del cielo, le piccole basse nubi, l’ampio glorioso sereno. Tre falciatori la vanno a gran forza tosando. Calzonacci di fustagno, andanti. Fusciacca, rossa come il sangue, intorno alla vita. Camicia aperta sul collo e sul petto, gonfia d’aria tremante. Maniche rimboccate su, oltre il gomito. Braccia come stanghe di vecchio rame. Come le larghe mani abbrancano la lunghissima falce! Come l’avventano, ampia, impetuosa, balenante nell’erba, con una mano afferra la lama luccicante, con l’altra attentamente e fortemente, or dall’alto, or dal basso, l’affila. (G. Zoppi)
Rocco mieteva, mieteva. Passava la falce al piede del grano alto, con una frequenza uguale di colpi come se la stanchezza non gli vincesse il braccio mai. La terra ardeva sotto; le messi mandavano vampate soffocanti. Ed egli mieteva, con gli occhi abbarbagliati dal lampeggiare continuo della falce, con le mani che gli pareva volessero scoppiare. Non finiva mai quel campo: le spighe ricrescevano appena tagliate. Gli altri mietitori, qua e là si trascinavano innanzi taciturni, senza un canto, senza una parola. (G. D’Annunzio)
La raccolta del grano era nel suo massimo ardore. Il campo sconfinato d’un giallo luccicante era limitato, solo da una parte, dall’alta, azzurreggiante foresta. Tutto il campo era coperto di covoni e di gente. Nell’alto, folto grano si vedeva qua e là, sul campo mietuto, la schiena curva di una mietitrice, lo sbatter delle spighe, quando essa le prendeva tra le dita; una donna all’ombra e i covoni dispersi qua e là per la seminagione. Dall’altra parte contadini ritti sui carri affastellavano i covoni e sollevavano polvere sul campo arso, rovente. (L. Tolstoj)
Il grano è una distesa d’oro fra strada e argine. Appena si muove, a quel venticello che porta l’alba, la peluria delle ariste trema e fa un suono leggero. A mezzogiorno, invece, pare che dica al contadino: “taglia, taglia”. E il contadino, sentendo questa voce, se, come accade, s’è posato all’ombra di un ulivo, col cappello sulla faccia, dopo sette ore di fatica, riapre gli occhi, gli par passato chissà quanto tempo e ripiglia la falce. (G. T. Rosa)
Il macchinista ha fatto ben presto ad avviare il motore, la cinghia è stata subito innestata, sotto alla trebbiatrice che già palpitava han disteso un ruvido panno a raccogliere quel poco che la macchina avrebbe lasciato perdere dagli ingranaggi; e l’uomo è subito montato su. Il contadino porgeva un covone dopo l’altro, accanto alla tramoggia; con un falcetto un altro tagliava un legaccio, e il primo infilava il covone per il capo, nella bocca della tramoggia… Solo il macchinista se ne stava imperioso, una gamba appoggiata al suo sussultante motore. (G. Titta Rosa)
L’estate è la stagione dei raccolti. Sotto il sole d’oro tutto diventa d’oro. Il grano biondeggia nei campi. L’erba falciata forma cumuli profumati. SI raccolgono i frutti dell’anno. Perciò tutti sono contenti. Anche i bambini mietono dopo la loro fatica. Ognuno può dire: “Ho arato lungo le pagine dei quaderni. Anch’io ho seminato fra le righe.” Ed ecco che su quei solchi sono sbocciati e maturati buoni frutti. (P. Bargellini)
I seminati erano già alti, pallidi di un sentore di grano e illuminati sfarzosamente da papaveri d’ogni grandezza, il cui calice traboccava luce rossa nell’aria, tra le spighe e addirittura nell’interno del solco. Impolverati d’argento, a intervalli regolari, gli ulivi avevano l’aria di persone che si fossero fermate al richiamo di qualcuno rimasto indietro, per aspettarlo; il viale saliva verso un poggio su cui sorgeva una casina gialla dalle persiane verdi con accanto una fattoria dal muro biancastro crivellato di porte e finestre nere; a destra del viale, verdissimi, lucidi, rinfrescanti l’aria col loro alito di fontana si stendevano i giardini di limoni su su fino al poggio… V. Brancati
La messe
Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante e tutte le allodole cantavano dallo spuntare dell’alba fino a sera. Dopo il tramonto, la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole e la grande luna d’oro splendeva mitemente sui campi che maturavano. (C. Joergensen)
La semina del grano
Il grano, involandosi dal pugno, brillava come faville d’oro e cadeva sulle porche umide, ugualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi umidi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra, grandiosa. (G. D’Annunzio)
Il grano
Quasi certamente la prima pianta coltivata fu il grano. L’uomo era ancora rivestito di pelli e di corteccia d’albero quando scoprì che i granelli di una spiga che egli aveva lasciato cadere nel terreno, erano germogliati e avevano dato origine ad altre spighe uguali. Da quel giorno sono passati migliaia e migliaia di anni, ma da allora il pane fu il perno intorno a cui si sviluppò la civiltà mediterranea.
Il grano
Il chicco di grano è caduto nel solco e fra poco germoglierà. Da quel piccolo chicco nascerà una piantina che a maggio metterà la spiga. Il vento trasporterà il polline da un chicco all’altro e la spiga allora sarà granita. Il sole la dorerà e la farà maturare. Il bel grano d’oro sarà mietuto e trebbiato. Con la farina che l’uomo saprà ricavarne si farà il buon pane quotidiano.
Grano maturo
Si vedeva un mare di spighe fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzodì; piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e persino del latte, e mandare scintillamenti come se vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo cresceva il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita. (E. De Marchi)
Le speranze del contadino
Il contadino spera quando semina il grano, spera quando vede il primo biondeggiare delle spighe, spera quando i primi fiori della vite spandono il loro profumo e attraverso una fiorita corona di speranza, porta al granaio le messi, alla botte il mosto, alla cucina i legumi dell’orto. (P. Mantegazza)
Il grano
Gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe ed ogni spiga tanti chicchi, i quali macinati, danno una polvere così bianca, così molle e queste, intrisa e rimenata e cotta, dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è la divina vivanda che di fa vivere: il pane! (G. Pascoli)
Il grano
Il grano è una delle piante più coltivate fin dai tempi antichi. Quando l’uomo decise di coltivare la terra forse furono semi di grano che egli gettò nel terreno. Da quel giorno lontano, i nostri campi ogni anno si coprono della preziosa messe che dà all’uomo il nutrimento necessario.
Il fiore del grano
La pianta benedetta, che ci dà il pane, ha fiori modesti. Facilmente potete scorgere tre stami pendenti, con l’antera, doppio sacchetto, ripiena di polline. La parte principale del fiore è l’ovario panciuto che, maturato, diventa un chicco di grano. E’ tale il piccolo, modesto fiore che ci fa vivere. (Fabre)
Il frumento
Seminato in ottobre – novembre, dopo il lavorio sotterraneo che ha sviluppato le radici, più tardi il grano spunterà fuori dal terreno in tanti fili teneri e versi. Da queste piantine si svilupperà la spiga che, in maggio – giugno diverrà tutta dorata. E ai primi di giugno, quando le cicale cominceranno a far sentire il loro canto monotono e assordante, le spighe cadranno sotto la falce dei dei mietitori. Il buon pane è assicurato.
Il grano
In autunno si semina, a primavera germoglierà. Al principio dell’estate quando il sole è tutto d’oro, il grano è maturo. Pare un mare dorato che il vento fa ondeggiare. Le bionde spighe cadranno sotto il falcetto del mietitore.
Esercizi di vocabolario
Grano: granaio, granaiolo, granaglie, granito, granire, granagione, granone, granuloso, sgranare, raggranellare, granivoro, …
Il grano può essere: seminato, spuntato, germogliato, spigato, maturo, mietuto, trebbiato, conciato, macinato, …
Il grano nasce, spunta, verzica, accestisce, fa lo stocco, fa la spiga, fiorisce, granisce, è in latte, biondeggia, si miete, si trebbia, si macina, si schiccola, si sgrana, si concia, si spigola, si vaglia, si monda, …
Spiga, mannello, covone, bica o barca, pula o loppa, paglia, stoppia, …
Falciatrice, mietitrice, trebbiatrice, spulatrice, vaglio, mulino, setaccio, …
Modi di dire: non avere un grano di giudizio; un granello di sabbia; un grano d’oro; un grano di pazzia; chi ha il grano non ha la sacca; mangiare il proprio grano in erba.
Il grano
Dio aveva già detto all’uomo scacciato dal paradiso terrestre: “Tu guadagnerai il pane col sudore della fronte”. Guadagnare il pane significò, per l’uomo, conquistarsi la possibilità di vivere.
L’uomo preistorico era frugivoro, cioè si nutriva di frutti. Grosso, irsuto, pesante, si esprimeva a mugolii con i suoi simili, scambiando con loro le notizie che lo interessavano: dove trovare, cioè, i frutti che gli piacevano tanto.
Poi, qualche volta, i frutti gli mancarono. Forse l’inverno era stato più rigido, forse il terreno dove in quel momento si trovava, era arido e sabbioso. In queste condizioni l’uomo subì un brutto periodo di carestia. Divenne magro e famelico. E poichè la fame è uno sprone, forse tra i più potenti, l’uomo imparò dagli animali ad aggredire altri esseri viventi che, con le loro carni, potevano sfamarlo. Il sapore della carne non dovette piacergli, abituato com’era a quello dolce e succoso dei frutti, ma vi si adattò. In seguito, seppe scegliere, fra gli animali, quelli che avevano la carne più tenera e saporita. L’uomo divenne cacciatore. Divorava la sua preda così come la trovava, ancora sanguinante e cruda, naturalmente. Non aveva ancora scoperto il fuoco.
La carne era un nutrimento forte, adatto ormai a quell’essere che aveva tante abitudini in comune con gli animali, ma spesso l’uomo aveva bisogno di alternare quel forte sapore non soltanto con la polpa succosa e fresca e soave dei frutti, ma con qualcosa di farinoso, di gentile, che temperasse piacevolmente il sapore della carne: il granello di una spiga che cresceva spontaneamente nei campi, prima verde, poi dorata, ma sempre tale da soddisfare il suo gusto.
Quei granelli gli piacquero tanto che egli li raccolse e li ammucchiò nella grotta che gli serviva da abitazione. Aveva imparato che non in tutte le stagioni gli era possibile trovarne.
Ma quella grotta dove il vento aveva portato un po’ di terra, era umida. Un giorno, l’uomo si accorse che quei granelli avevano germogliato. Li gettò via, irritato che la sua provvista di fosse guastata.
Tornò sul luogo dopo qualche mese. Accanto alla grotta, crescevano, alte, le spighe che l’uomo riconobbe. Non solo, si ricordò che in quel punto erano caduti i granelli germogliati…
La mente dell’uomo lavorava, lavorava… L’uomo raccolse i granelli di quelle spighe e li lasciò di nuovo cadere nel terreno. Questa volta non si mosse da quel luogo. Sorvegliò per vedere che cosa succedeva. Vide spuntare le piantine verdi e tenere e le difese dagli animali che ne erano ghiotti.. Le piantine divennero alte, misero la spiga. L’uomo resistette alla tentazione di mangiarne i granelli. E le spighe divennero d’oro. I granelli erano ormai maturi, l’uomo li raccolse nel palmo della mano e li osservò: erano identici a quelli che aveva seminato in un giorno lontano. Li mostrò alla sua donna e ai figlioletti, li assaggiò, poi indicò la terra e la donna capì. Non sarebbero morti di fame; non avrebbero dovuto vagare continuamente alla ricerca dei frutti, non sarebbero stati obbligati, per saziarsi, a uccidere l’animale che fuggiva davanti a loro. Con quei granelli avevano in pugno il destino. Erano pochi granelli dorati che facevano, però, di un essere selvatico quasi come le bestie, un uomo che in quel momento muoveva il primo passo sul cammino della civiltà.
L’uomo divenne agricoltore, pur restando ancora nomade. Seminava i campi, aspettava che le messi maturassero e, per far ciò, aveva imparato a costruire alcune capanne di frasche, dato che le caverne, nei campi, non sempre si trovavano. L’uomo ebbe una casa sua, fatta con le sue mani. Ma quando i campi, ormai stremati dai successivi raccolti dettero un prodotto insufficiente, l’uomo li abbandonò per andare a cercarne altri non ancora sfruttati. Si portava dietro i greggi perchè aveva imparato ad allevare gli animali che lo dovevano nutrire.
Non mangiava più i granelli, così come la spiga glieli dava. Aveva ormai scoperto il fuoco e imparato a cuocervi sopra la carne dei capretti e delle lepri uccise a caccia. Ora stritolava i granelli fra due sassi e ne ricavava una farina bianca. Con questa farina, la donna impastava una rozza focaccia che, anche così bruciacchiata e nera, aveva un ottimo sapore.
Infine, l’uomo non fu più nomade. Costruì i suoi villaggi e coltivò i campi che li circondavano.
Il compito di seminare il grano era affidato alla donna che imparò a servirsi di un pezzo di legno con cui scavava un buco nel terreno per lasciarvi cadere il seme: un lavoro faticoso e lento. Per renderlo più facile, la donna chiese all’uomo di legare due pezzi di legno insieme: quasi una croce. Premendovi sopra col corpo, la donna riusciva a tracciare un solco nel quale, poi, avrebbe gettato il seme.
L’uomo, vedendo quel lavoro, si spaventò. Temeva di ferire la terra che egli considerava sua madre e che aveva paura di offendere. Ma la donna lo convinse del contrario. La terra gradiva quel trattamento. Infatti, dava maggior copia di spighe.
L’uomo si lasciò convincere, pur continuando ad offrire sacrifici alla buona terra che gli si mostrava così benigna.
Infine attaccò, a quell’arnese primitivo, un animale. Fu un bestione che egli aveva domato con molta fatica; un animale robusto che ancora mal si assoggettava alla schiavitù: il toro.
La civiltà avanzava. Ogni villaggio aveva ormai il suo mulino. Questo era formato da una grande pietra fissa sulla quale girava un’altra pietra, grossa e pesante: mulini che ancor oggi si trovano in qualche paese meno progredito. Li usarono anche i Romani, i quali vi attaccavano gli asini e i cavalli che bendavano per costringerli a girare. E qualche volta, vi attaccavano anche i prigionieri di guerra e gli schiavi.
Poi i Romani inventarono i mulini ad acqua. La macina era collegata a una ruota mossa dalla forza di un torrente o di un fiume.
Nel Medioevo si diffuse l’uso dei mulini con grande ruote munite di tele che utilizzavano la forza del vento; sono ancora in uso in alcuni paesi.
Oggi, i mulini sono complicati e perfetti, azionati dalla forza elettrica, attrezzati in modo tale che non solo procedono alla macinatura, ma anche alla selezione dei semi e alla setacciatura della farina.
Anche il pane, dalla rozza focaccia cotta tra due pietre, ha fatto una lunga strada. E’ diventato leggero, profumato, bianco, ha preso le forme più varie e invitanti.
Ma resta sempre il pane: il nutrimento fondamentale dell’uomo.
Il chicco di grano
Il seminatore procedeva nel campo, spargendo i semi di grano nella terra lavorata. Ci fu un chicco di grano che si trovò solo, tra due zolle di terra nera e umidiccia; divenne triste, molto triste! Ripensò al tempo in cui si ergeva in una spiga svelta, baciata dal sole, cullata dal vento, quando si sentiva beato come un bimbo in braccio alla mamma. Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; e lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante, e tutte le allodole cantavano, dallo spuntar dell’alba fino a sera. E quando il sole tramontava non faceva freddo, non era umido come in quel momento; ma la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole, e la grande luna d’oro splendeva mite sui campi che maturavano. (Joergensen)
Il seme nella zolla
Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio. In principio temei che il seme fosse già morto; ma, dopo aver spostato, per mezzo d’una festuca di paglia, con lentissime precauzioni il terriccio che l’attorniava, scoprii una linguetta viva, tenerissima, della forma e grandezza di un minuscolo filo d’erba.
Ah, tutto il mio essere, tutta la mia anima si raccolse ad un tratto attorno a quel piccolo seme. Quanto mi disperai allora di non sapere esattamente che cosa convenisse fare per aiutarlo meglio a vivere. Per ripararlo dal gelo vi aggiunsi sopra una manata di terra; ogni mattino facevo sciogliere su di esso un po’ di neve allo scopo di fornirgli l’umidità necessaria; e affinchè non gli mancasse il calore spesso vi alitavo sopra.
Quella zolla di terra, con quel piccolo debole tesoro nascosto, minacciato da tanti pericoli eppure vivente, finì per acquistare ai miei occhi il mistero, la familiarità, la santità di un seno materno. (I. Silone)
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