L’ELEFANTE dettati ortografici e letture.In molti Paesi asiatici migliaia di giganteschi pachidermi, ridotti in cattività, passano l’esistenza al servizio dell’uomo. Testo per la dettatura, la lettura e il riassunto.
Apparve all’improvviso, stagliandosi in tutta la sua mole contro il denso verde di una foresta dell’India meridionale: un colosso con la pelle color grigio scuro che scendeva per il sentiero soleggiato di montagna, trasportando un tronco di palissandro serrato fra le zanne e la proboscide arrotolata. Aveva una grazia ed un’agilità di movimenti inaspettata. Si sarebbe quasi detto che il vero re della giungla asiatica trovasse divertente lavorare per l’uomo come boscaiolo.
Era la prima volta che vedevo un elefante al lavoro. In molti Paesi asiatici migliaia di questi meravigliosi animali passano parecchi anni della loro vita al servizio degli uomini, trasportando, spingendo, sollevando e manovrando pesanti carichi. Aggiogato a un aratro, uno di questi elefanti può dissodare il terreno lungo il confine tra l’India e il Nepal. Carico di medicinali può avanzare nella giungla thailandese e raggiungere villaggi malarici tagliati fuori dal mondo. Servendosi dell’ampia e ben corazzata fronte, riesce a smistare i vagoni merci in una stazione ferroviaria e, con l’aiuto delle zanne e della poderosa testa, a raddrizzare un’auto capovolta.
Ma è come boscaiolo che questo elefante tuttofare primeggia. Lo si può vedere all’opera nelle foreste thailandesi mentre sposta un tronco di legno di tek pesante due tonnellate, lo spinge fino all’orlo di un precipizio e poi lo fa cadere in un corso d’acqua che scorre quasi 100 metri più in basso. E’ capace di sciogliere un groviglio di tronchi che galleggiano su un fiume della Birmania, individuando con esattezza quello che blocca gli altri e smuovendolo, pronto a tirarsi da parte per evitare di essere investito dalla valanga dei tronchi liberati. Con una fune legata ai grossi molari lunghi 30 centimetri può, insieme con un compagno, trascinare un tronco del diametro superiore all’altezza di un uomo. Nello Stato del Kerala, nell’India meridionale, c’è perfino un elefante privo di una zanna che è capace di sollevare l’estremità si un tronco fino alla ribalta posteriore di un autocarro e poi, afferrata saldamente con la proboscide e con l’unica zanna l’altra estremità, di spingerlo pian piano fino in fondo.
Ma non è solo in tempi recenti che l’elefante asiatico ha messo la sua eccezionale abilità al servizio dell’uomo. Già nel 326 aC il re indiano Poro andò incontro alle schiere di Alessandro Magno con 200 elefanti da guerra. Inoltre per secoli l’elefante, ornato da splendide bardature, ha preso parte a cerimonie con re e sacerdoti. Diversi anni fa, all’incoronazione del re Mahendra del Nepal, ho assistito a una processione di questi nobili animali. Dipinti di nero, di rosso vermiglio e d’oro, sfilavano solenni lungo le strade tutte imbandierate di Kathmandu davanti alle autorità nepalesi ed estere.
Come può un animale selvatico, cresciuto nella giungla, ritrovarsi un bel giorno a far parte di un corteo, a trasportare medicinali o a trainare legname in una foresta di alberi di tek? Sono le sue stesse abitudini e la sua stessa indole mite a spiegare come mai sia così addomesticabile.
Allo stato libero l’elefante asiatico, che vive in branchi formati da 5 a 50 individui, si muove di continuo nelle foreste per procurarsi i quasi 300 chilogrammi di cibo che costituiscono la sua razione giornaliera. Strappa un ramo da una panta di bambù o da un fico e se lo mangia tutto, oppure, sradicato un arbusto dal sapore gradito, lo sbatte contro la zampa anteriore per liberarlo dalla terra e, contraendo i 40.000 muscoli della sua potente proboscide, lo porta alla bocca. Per annaffiare il pasto, poi, raggiunge un fiume o uno stagno e aspira enormi quantità d’acqua, da 130 a 190 litri il giorno.
Ma nella sua ricerca di cibo e di acqua l’elefante lascia dietro di sé tracce evidenti, facilitando il compito a chi vuole catturarlo. Uno dei modi più semplici consiste nello scavare una grande fossa e nell’aspettare che ci caschi dentro. Una volta caduto in trappola, l’animale viene legato e condotto fuori su per una rampa fra due elefanti già addomesticati. Esistono però altri metodi di cattura: lunghe funi terminanti in grossi nodi scorsoi sistemate lungo le piste della foresta in modo da accalappiare gli elefanti per le zampe; oppio mescolato a foraggio e portato nella foresta; proiettili anestetizzanti; elefantesse addomesticate, vere e proprie Dalila della foresta, che attirano i maschi selvatici così che i mah-out possano prenderli al laccio. Interi branchi vengono catturati in India e in Pakistan orientale con lo spettacolare sistema del kheddah: gli elefanti selvaggi vengono sospinti fuori del cuore delle foreste e convogliati verso un recinto circondato da un largo e profondo fossato o da un’alta palizzata provvisoria.
Tra gli elefanti catturati ce ne sono alcuni troppo riottosi o troppo vecchi per essere addomesticati. Ma di solito dopo un periodo che va dai nove mesi a un anno questi colossi, ormai domati, cominciano la loro vita di lavoro. Seguiamo ora un elefante indiano nel suo corso di addestramento.
Chiameremo il nostro elefante Ravi, dal nome del fiume che nasce nell’Himalaya. E’ un animale nobile, alto quasi tre metri, con testa e torace massicci, dorso allungato, piatto e spiovente, zampe corte e grosse e una lunga coda che termina in un ciuffo. Quando lo incontriamo sta barrendo con furia. E’ appena uscito dalla fossa in cui era caduto e una o due coppie di elefanti addomesticati lo spingono ai fianchi guidandolo verso il kraal.
Il kraal è un recinto di grossi tronchi nel quale gli elefanti catturati vengono chiusi e impastoiati. “Dopo una settimana o due”, spiega l’incaricato, “il mah-out entrerà nel kraal, darà a Ravi delle foglie di palma, lo farà bere e gli offrirà melassa o banane per ingraziarselo, comincerà a carezzagli il fianco e il muso e a parlargli con dolcezza. Dopo u mese circa Ravi lascerà il kraal, sempre accompagnato da una coppia di elefanti addomesticati, andrà al fiume a fare un bagno e poi verrà legato a un albero. Nel recinto ormai non tornerà più”.
Poco per volta il mah-out insegna a Ravi ad eseguire gli ordini che lui gli dà, sempre con la stessa inflessione, in lingua hindi: “Siediti”, “Chinati”, “Vai avanti”, “Sdraiati”, “Bevi”, “Alza la zampa”. Quante parole imparerà a riconoscere Ravi? Forse, e senza fatica, più di una ventina. Ma nessuno sa quale sia il limite massimo. Sir Richard Aluwihare, ex alto commissario di Ceylon in India, ha affermato che un elefante può arrivare a conoscere fino ad 82 parole.
Una vita ordinata, dei pasti regolari e l’affetto di cui è circondato finiscono col far superare all’elefante lo shock iniziale della cattività. Adesso Ravi, non appena il mah-out lo tocca anche lievemente dietro l’orecchio o contrae i muscoli della coscia, obbedisce subito, senza esitare. Alla prossima asta di elefanti Ravi sarà con ogni probabilità venduto a un prezzo molto alto.
Se viene impiegato per il lavoro nelle foreste dello Stato di Mysore, in India, un elefante come Ravi comincerà la sua fatica alle otto del mattino e finirà all’una del pomeriggio: fa troppo caldo per lavorare otto ore al giorno. Quando la sua giornata lavorativa è finita, l’elefante fa ritorno al campo, riposa finché il sudore non gli si è asciugato, poi scende al fiume dove il mah-out lo striglia con una pietra o con il guscio di una noce di cocco. Tornato al campo, consuma il suo pasto, quasi 25 chili di paglia e una quindicina di chili di riso, e quindi è libero di andarsene in giro per la foresta a farsi un altro spuntino. A sera fa un altro pasto e, dopo aver dormito solo quattro ore, torna a girovagare nella foresta mangiucchiando fino all’alba.
Gli elefanti adibiti al lavoro sono trattati con molta cura. “Noi accertiamo la capacità di traino di ogni elefante” mi disse Raghavendra Rao, veterinario del Ministero delle Foreste del Mysore, “e lo stabiliamo in rapporto alla pendenza del terreno, al volume dei tronchi, alla distanza da percorrere e alle condizioni dell’elefante”. Mentre Rao mi parlava, arrivò un mah-out seguito dal suo elefante. L’elefante sembrava camminare a fatica e il mah-out era venuto a chiedere un consiglio. “Gli elefanti che lavorano”, mi spiegò Rao, “possono soffrire di disturbi di stomaco, di coliche, di diarrea o di malattie contagiose”. Quell’elefante aveva una piaga infetta sul ventre. Rao diede al mah-out una pomata allo iodio e questi la spalmò con delicatezza sulla piaga. Lo iodio certamente bruciava, ma l’elefante per trovare un po’ di sollievo al dolore si limitava a dondolare la zampa anteriore.
Le premure che i mah-out hanno per i loro elefanti sono comprensibili. Lavorando nella foresta con questi giganteschi boscaioli essi finiscono con l’affezionarcisi. A parte qualche eccezione, i colossi sono in genere docili, mansueti ed estremamente pazienti. Le femmine poi sembrano avere il carattere più tranquillo e più mite del mondo.
Riusciranno gli elefanti a continuare a sopravvivere come forze lavorative nell’Asia moderna? Riusciranno a competere con i trattori e con le nuove macchine che abbattono, smembrano, spuntano ed accatastano gli alberi?
In alcune foreste, certamente no. La Thailandia, per esempio, sta sostituendo gli elefanti con trattori adibiti al trasporto di tronchi, mentre nei cantieri di disboscamento in India il numero degli elefanti che lavorano è in diminuzione. Ma l’Asia p grande e ci sono ancora foreste per centinaia di milioni di ettari dove il lavoro degli elefanti è indispensabile. Non soltanto l’elefante è un mezzo più economico, ma è anche insieme un motore, un trattore, una gru, un autocarro e, per finire, anche una specie di calcolatore elettronico.
“I vari movimenti che un elefante compie nel manovrare i tronchi non sono il risultato di un addestramento”, dice il dottor John F. Eisenberg del Parco Zoologico Nazionale di Washington “E’ l’animale che, una volta sollevata un’estremità del tronco da terra e sistemata la catena in bocca, la sposta fino a trovare il punto di equilibrio. Quando l’elefante capisce che cosa si vuole da lui, lo fa improvvisando. Esiste forse una macchina capace di tanto?”.
Certo è probabile che, con l’intelligenza che ha, l’elefante selvatico possa aver già fatto dei nuovi programmi per il suo avvenire che escludono la possibilità di lavorare per l’uomo. Alcuni elefanti, mi ha detto in tono solenne una guardia forestale, hanno imparato a tenere con la proboscide una lunga canna di bambù in posizione verticale e quando se ne vanno in giro nella foresta saggiano con quella il terreno per assicurarsi che non nasconda insidie.
La guardia forestale non aveva mai visto personalmente gli elefanti farlo, ne aveva soltanto sentito parlare. Siccome mi trovavo in un kraal in India, pensai di porre a bruciapelo la domanda proprio a un elefante. Non mi rispose, si limitò a strizzarmi l’occhio.
S. E. Fraezer
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