I COMUNI materiale didattico vario per la scuola primaria.

I Comuni: una nuova civiltà
Le prime città italiane che divennero libere e ricche furono le città marinare. In seguito però anche nei borghi lontani dal mare si fece strada una nuova civiltà.
Nella campagne i contadini, con nuovi metodi di coltivazione, riuscivano a produrre raccolti più abbondanti, la cui vendita permetteva loro di comprare presso gli artigiani delle città le merci necessarie a rendere meno difficili le loro condizioni di vita. Così il benessere delle campagne influì direttamente sullo sviluppo delle città dove artigiani e mercanti, con la crescente richiesta delle loro merci, trovarono nuovo interesse al lavoro e alla produzione.
Molti servi della gleba lasciarono i villaggi per trasferirsi nelle città, che diventarono a poco a poco più grandi, più belle, più ricche.
Dai loro castelli i feudatari guardavano preoccupati questo improvviso risveglio di vita creato dal lavoro e vedevano diventare potenti non uomini d’armi, ma i pacifici mercanti, i banchieri, gli artigiani.

La nascita dei liberi Comuni
A poco a poco le città si sottrassero al dominio dei feudatari ed acquistarono l’indipendenza. Dapprima affidarono la protezione dei loro diritti ai vescovi, poi si liberarono anche della loro influenza e si governarono da sole.
Nacquero così i liberi Comuni italiani, piccoli Stati indipendenti.
Il Comune era retto da due o tre consoli che venivano eletti per la durata di un anno. Più tardi furono sostituiti da un podestà, chiamato da fuori perchè governasse con maggior giustizia. I consoli e i podestà erano aiutati da pochi cittadini che formavano il Consiglio minore e maggiore.
Quando si doveva prendere una decisione importante, tutti i cittadini si raccoglievano in parlamento davanti al Palazzo del Comune.

La vita nella città comunale
La città comunale era circondata da torri, chiusa da porte, ma non risuonava solo dei passi dei soldati come il vecchio castello. Essa infatti era piena delle voci degli artigiani e dei mercanti intenti al lavoro. Questi ultimi, arrivati con i loro carri nella piazza del mercato, esponevano ogni sorta di merci.
Dalla piazza del mercato, che era anche la piazza dove si teneva il parlamento, si irradiavano tutte le strade della città: la via degli orafi, dove avevano le loro botteghe i maestri nell’arte di cesellare i metalli preziosi; la via degli armaioli, dove erano i fabbricanti di lance, corazze e scudi; la via dei lanaioli, dove erano i mercanti che vendevano la stoffa; e ancora la via dei cuoiai, degli speziali, dei falegnami, dei pentolai, dei cambiatori, dove si cambiavano le monete.
Tutti coloro che esercitavano la stessa professione erano riuniti in associazioni chiamate corporazioni, che fissavano i prezzi delle merci, il metodo di lavorazione, il numero degli operai che potevano lavorare in una bottega, la durata del lavoro giornaliero.
In questo modo il lavoro era ben disciplinato e tutti potevano vivere meglio.
A poco a poco la città diventò così ricca che poteva prestare denaro a principi e a re. I mercanti e gli artigiani offrivano il proprio denaro ai consoli perchè chiamassero architetti e pittori famosi ad abbellire i pubblici palazzi.
Una voce era rimasta fuori della città: la voce del corno che dava l’allarme nel castello o che risuonava nel bosco durante le cacce, la voce della dominazione feudale.
Al suo posto si udiva la campana che chiamava con con gioia se era tempo di festa, con ansia se la città era minacciata. Allora tutti accorrevano davanti al Palazzo del Comune, per armarsi e difendere la piccola e amata città.

Per il lavoro di ricerca
Come e quando nacquero i liberi Comuni?
Chi li guidò dapprima? E in seguito?
Quali furono i maggiori Comuni italiani?
Quale Comune si distinse per la sua potenza e magnificenza?
Che cosa era il parlamento?
Quali cittadini facevano parte del “popolo grasso” e del “popolo minuto”?
Vissero sempre in concordia fra di loro i Comuni?
Chi erano i Guelfi e i Ghibellini?
Come era la vita pubblica ed economica?
Come era l’aspetto di una città nell’età comunale? Come erano le case dell’epoca comunale?
Quando nacque la nostra lingua?
Quali grandi uomini vissero nel periodo comunale?
Quali “arti” e “mestieri” si svilupparono particolarmente durante l’età comunale?

Sorge il Comune
Nelle campagne deserte, fra le immense foreste, lungo i fiumi, nelle vaste piane malsane per gli acquitrini che qualche solerte ordine monastico tentava appena di risanare, la vita era triste e pericolosa.
Nelle città si era più sicuri.
Vi erano buone e salde mura e le porte, sprangate la notte e sorvegliate da scolte (sentinelle), permettevano un tranquillo riposo dopo la giornata laboriosa.
Perchè nelle città si lavora.
Le milizie hanno bisogno di armi  e armature. Si sviluppano i commerci e le industrie.
Palazzi, fortezze, monasteri e chiese richiedono maestranze provette, artigiani del legno, del ferro, della pietra, dei laterizi.
Le corti hanno bisogno di ricche stoffe per gli abbigliamenti degli uomini e delle dame, le chiese si adornano di paramenti preziosi.
A Colonia, Norimberga, Milano, Brescia risuonano le incudini delle mille fucine degli armaioli; i piccoli signori di campagna preferiscono alla sede deserta e mal difendibile del castelletto, il palazzo in città su cui s’erge la torre.
Gli interessi si moltiplicano al di fuori della vita dei signori e degli ecclesiastici: amanuensi e notai, maestri di arti guadagnano denaro col loro lavoro; e guadagnano, arricchendosi, i mercanti audaci che per le lunghe vie di terra e di mare tessono la rete profittevole dei loro scambi.
A Genova, a Venezia, a Pisa gli armatori, padroni di navi da traffico, sono una casta nuova ricca di denaro liquido, difficile a controllare e a taglieggiare; con essi i signori, i vescovi, l’imperatore stesso dovranno venire a patti se vogliono avere tributi od aiuti, e in cambio di questi offrono franchigie e libertà.
Sorgono così le città che si governano da sè, con magistrati locali, scelti per la libera elezione dagli uomini che lavorano; sorge il Comune.
Un ricordo remoto di romanità, mai spento per trascorrere di secoli, dà ai reggitori del Comune il nome famoso di consoli.
Sulla fine dell’XI secolo, nell’Italia settentrionale, fra il disordine e l’assenza dei governi imperiale e regale, appare consolidata la vita dei Comuni.
Uno scritto del 1093 accerta l’esistenza di un governo comunale a Biandrate,  presso Novara; certamente nella stessa epoca Milano, Lodi, Crema, Cremona, avevano ormai la loro costituzione comunale. (E. Momigliano)

I maggiori Comuni italiani
Alcuni Comuni si svilupparono maggiormente, sia per la loro posizione che per l’operosità dei loro abitanti.
Milano fu famosa per l’abilità dei suoi artigiani nel fabbricare armi e corazze, richieste da principi e sovrani di tutta Europa; Venezia fu celebre per la lavorazione del vetro, arte appresa da operai di Bisanzio; Firenze fu nota per i suoi tessuti di lana e di seta; Pisa per la fusione delle campane; Pesaro, Urbino e Gubbio per le loro stupende ceramiche; Lucca per i ferri battuti.

Il governo del Comune
E’ naturale che dapprima prevalessero nel Comune i nobili, proprietari di terre, e i valvassori: i mercanti e gli artigiani erano ancora poco numerosi e poco autorevoli. Infatti, i magistrati posti a capo della città e detti romanamente consoli, furono fin verso la fine del secolo  XII sempre nobili. Duravano in carica generalmente un anno, avevano il potere esecutivo, militare e giudiziario, erano assistiti da un Consiglio minore o degli Anziani (Senato). Ma quando si doveva decidere su questioni molto importanti, si convocava tutto il popolo. Questa adunanza generale nella piazza principale o arengo si chiamava Parlametno o Concione.
La borghesia, cresciuta di numero e di potenza, ambì, un certo momento, di impadronirsi del potere.
Dopo un periodo di contrasti e di torbidi, i consoli furono sostituiti da un magistrato nuovo, il podestà. Il podestà era quasi sempre uno straniero, che veniva invitato a governare per uno o due anni il Comune. Non avendo ne amici ne parenti ne interessi particolari da difendere nel Comune, il podestà straniero dava garanzie di poter governare con rettitudine e senza fare favoritismi. Il sistema dei podestà rimase in uso per tutto il secolo XIII, ma neppure questo riuscì ad eliminare le discordie fra i cittadini.
Per stroncare con la forza le ribellioni, allora si decise di affidare il Governo a un uomo solo, energico, capace di far rispettare su tutti la sua volontà. Per questo compito si scelse il Capitano del Popolo, cioè un condottiero esperto nelle faccende militari e dotato di grande popolarità fra i soldati. Nelle mani dei Capitani del Popolo, i Comuni ritrovarono la pace e l’ordine, ma perdettero la loro libertà. Infatti il condottiero finì con il governare da solo, sopprimendo ogni diritto dei cittadini. Finiva così l’età dei Comuni e cominciava quella delle Signorie.

Il Parlamento
I capi delle Corporazioni, riuniti insieme eleggevano il capo del Comune. Tutti insieme fissavano le tasse da pagare e le opere pubbliche da realizzare.
Per le decisioni importanti veniva convocato a parlamento tutto il popolo. Ogni cittadino era anche soldato. Sorsero le mura e i fossati intorno alle città.
Ai feudatari non restava che una scelta: lotta senza quartiere contro il Comune, oppure inserirsi attivamente nella vita di esso.

Popolo grasso e popolo minuto
Come sempre succede, anche nel Comune i cittadini non avevano tutti la medesima ricchezza. C’erano i nobili, i grandi commercianti, i notai, i banchieri e in genere coloro che possedevano grandi ricchezze: questi formavano il cosiddetto popolo grasso, che in pratica riusciva ad accaparrarsi le cariche più importanti del Comune.
Il popolo minuto era  invece formato dagli artigiani, da coloro che lavoravano alle dipendenze altrui, dai poveri in generale. Ma anche se non disponeva di ricchezza materiale e non poteva accedere facilmente alle cariche pubbliche più alte, il popolo minuto non era composto di servi. Anche il più povero dei cittadini era un uomo libero, che poteva partecipare al Governo in modo attivo prendendo parte alle riunioni dell’Assemblea o Parlamento o Arengo (a seconda delle città).

Le guerre del Comune
Praticamente ogni primavera l’esercito comunale, composto dai cittadini e guidato da un Console, usciva dalle mura e compiva incursioni guerresche nei territori vicini. L’obiettivo principale di quelle azioni belliche era molto spesso rappresentato dai vari castelli feudali, che minacciavano costantemente la libertà e l’autonomia del Comune. I cittadini aggredivano il castello, sopraffacevano la guarnigione e costringevano il feudatario a trasferirsi in città oppure a concedere un solenne riconoscimento dell’indipendenza del Comune. Così a poco a poco il Comune ingrandiva i propri possedimenti territoriali, ed eliminava i suoi nemici più pericolosi.
Molto spesso, poi, i Comuni facevano guerra fra loro. La posta in palio era rappresentata da una strada, un fiume, un territorio particolarmente ricco: la floridezza del Comune derivava in grandissima parte dalla sua attività commerciale, e tutto ciò che poteva favorire i traffici doveva entrare in possesso dei cittadini. Allo stesso modo, infine, era necessario eliminare i concorrenti, cioè i Comuni diventati troppo potenti.
Ma intanto si profilava una nuova, gravissima minaccia per i liberi Comuni: l’imperatore. Questi cominciava a rivendicare il possesso di quelle città che gli erano appartenute e che ora erano diventate tanto floride. Poichè i cittadini non intendevano assolutamente cedere le armi di fronte  alle pretese dell’imperatore, una durissima, decisiva lotta si annunciava imminente.

Vita comunale
Le città feudali sorgevano di solito in luoghi elevati, presso incroci di strade importanti, lungo fiumi navigabili o non lontano dalle frontiere. Attorno alle mura del castello feudale o del monastero fortificato si erano lentamente sviluppati i commerci e le modeste industrie dei cittadini o borghigiani.
Quando cessarono le scorrerie barbare, l’attività fuori dalle mura castellane crebbe,  le botteghe si moltiplicarono e i mercanti e gli artigiani, che prima non abitavano stabilmente in città, vi si stabilirono definitivamente. La popolazione che viveva fuori del castello costruì a propria protezione una seconda cinta di mura.
Il Comune batteva moneta, stabiliva e sorvegliava i lavori pubblici, costruiva strade, ponti e canali, pavimentava le principali vie della città, disponeva il rifornimento dei generi alimentari, proibiva l’accaparramento, la compera all’ingrosso o l’incetta, favoriva il diretto contatto tra venditori e compratori ai mercati e alle fiere, esaminava pesi e misure, ispezionava le merci, puniva l’adulterazione delle derrate, controllava esportazioni e importazioni, immagazzinava grano per gli anni magri, in caso d’emergenza forniva grano a buon mercato, fissava i prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Quando il prezzo di una derrata desiderabile era fissato troppo basso e ci si accorgeva che la produzione ne soffriva, allora il Comune lasciava che i prezzi di quella determinata merce trovassero il loro equilibrio mediante la concorrenza; ma con corti o assise del pane e della birra manteneva la vendita al minuto in costante relazione con il costo del grano e dell’orzo. Pubblicava periodicamente una lista di prezzi e riteneva che ogni merce dovesse avere un giusto prezzo che tenesse conto del costo del materiale e delle ore di lavoro. (W. Durant)

I COMUNI materiale didattico

Gli artigiani
Gli artigiani erano uomini semplici e laboriosi. Andavano sbarbati, ma tenevano i capelli lunghi, a zazzera. In capo portavno un berrettino a cono o a papalina. Indosso un farsetto stretto alla vita da una cintola di cuoio. Portavano calze lunghe di panno, con la suola di cuoio, chiamate calze solate. Le scarpe erano usate soltanto per i lunghi viaggi. I vestiti non avevano tasche e tutto veniva portato in cintola, mediante fermagli: borse, pugnali, oggetti vari. Lavoravano dall’alba al tramonto e dopo il lavoro si raccontavano novelle e storielle.

Le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, mettevano l’olio nelle lucerne. Anch’esse, dalla mattina alla sera, non facevano che lavorare. Vestivano molto semplicemente, con un vestito ripreso alla vita dalla cintura di cuoio, e sotto di questo una gonna più chiara, chiamata sottana. In testa un panno di lino e ai piedi le pianelle.

I COMUNI materiale didattico

Le case nel centro della città, strette fra loro, erano altissime e si chiamavano case-torri. In ogni casa c’era l’occorrente per la vita: il pozzo per l’acqua, la cantina per il vino, il forno per il pane, l’orciaia per l’olio, la stalla per il cavallo, il telaio per il panno. Pochissime case avevano le finestre coi vetri. Di solito le finestre erano chiuse con panni bianchi, imbevuti d’olio perchè fossero più trasparenti. Anche oggi le parti delle finestre si chiamano telai e impannate.
Il mobilio era scarso. Qualche panca, poche panchette, alcuni cassoni pieni di biancheria e vestiti. Per difendere la lana dalle tignole si metteva nei cassoni molto pepe. Le armi stavano in un mobile chiamato armario, da cui è venuto il nome armadio.
Si viaggiava o a piedi o a cavallo. Soltanto allora si portava un cappello di feltro a larghe tese, con un cordone annodato sotto il mento. Quando non pioveva o il sole non bruciava, il cappello veniva gettato dietro le spalle. (P. Bargellini)

La vita economica
Dopo la vittoriosa affermazione di Legnano, la vita dei liberi Comuni italiani cominciò ad espandersi in tutta la sua esuberanza.
I mercanti e gli artigiani si associarono sempre più numerosi in corporazioni delle Arti: vi erano le Arti Maggiori e le Arti Minori (con a capo di ciascuna un priore), a seconda dell’attività esercitata. Ciò facevano, e gli uni e gli altri, per la tutela dei propri interessi, ma erano mossi anche dall’amore verso la patria, dal desiderio di renderla più forte, più ricca, più splendida.
Le industrie fiorirono e diedero impulso ai commerci: a Firenze fiorì l’industria della lana; a Bologna quella della seta; a Genova e a Zoagli quella dei velluti; a Murano quella dei vetri; a Faenza quella delle stoviglie; a Milano quella delle armature; da per tutto quelle del cuoio e delle pellicce, oltre agli arsenali di Venezia e di Genova, pieni di navi in costruzione.
I mercanti italiani percorsero l’Europa vendendo materie lavorate e comprendo materie grezze; aprirono le prime banche pubbliche, come il Banco di San Giorgio a Genova, e divennero i primi banchieri del mondo, come i Medici, i Peruzzi, i Bardi, grandi mercanti fiorentini che avevano banche in tutte le principali città d’Italia e d’Europa.
I banchieri lombardi dominavano il mercato del denaro fino in Inghilterra, e lombardo divenne sinonimo di italiano. Perfino i più potenti re d’Europa si rivolgevano ai banchieri italiani per avere grossi prestiti di denaro. Furono inventati allora i principali strumenti bancari, come la cambiale, la scrittura doppia e la società dei assicurazioni.
Riapparve in circolazione la moneta d’oro, scomparsa da parecchi secoli ormai dall’Europa impoverita con le invasioni barbariche: si coniarono il fiorino di Firenze, lo zecchino di Venezia, il genoino di Genova, ecc…; e poichè ogni città aveva il suo sistema monetario, ebbe inizio l’attività dei cambiavalute e dei banchieri. Famosi tra essi i  banchieri fiorentini, lombardi e genovesi.

Arti e mestieri
Le città sono piene di artigiani che lavorano con grande bravura il ferro, il cuoio, il legno, che tessono e colorano belle stoffe di  lana e di seta. I fabbri lucchesi  sono maestri a tutti: anche i più comuni oggetti, una chiave, una cancellata, un portastendardi, paiono opere d’arte.
Famosi fonditori di campane sono i Pisani e da per tutto li chiamano perchè ormai non c’è chiesa o palazzo del Comune senza campane.
Brescia e Milano, invece, hanno rinomanza in tutta Europa per le fabbriche d’armi.
I setaioli lucchesi, fiorentini, milanesi, non hanno nessuno che possa star pari a loro. E’ un’arte venuta dalla Sicilia in Toscana e dalla Toscana passata ad altri luoghi.
Anche nell’arte della lana sono maestri i Fiorentini. Importano dall’estero panni rozzi e li restituiscono che sono una meraviglia.
E le maioliche di Gubbio, di Urbino, di Pesaro, di Faenza? Nessun Paese al mondo ne dava di così belle ed apprezzate: colo rosso, color oro, color azzurro, color perla.
Altre arti fiorivano a Venezia. E innanzi a tutte l’arte del vetro, arte famosa, arte veneziana di Murano, portata  là da operai di Bisanzio e di Ravenna. Nell’isoletta di Burano invece, le donne lavoravano merletti e trine leggere e vaporose.
Dove non andavano allora gli italiani? I mercanti e i banchieri , anche di piccole città come Prato, si potevano incontrare in Francia, in Inghilterra, in Polonia, nella Spagna.
Molti di essi si arricchivano; e la ricchezza acquistata veniva spesa per adornare le città con belle chiese e begli edifici.

La bottega
Nel Medioevo non esistevano grandi fabbriche: il lavoro e la produzione erano concentrati nelle botteghe artigiane. Vi lavoravano il maestro, i suoi soci e i suoi discepoli, che potevano anche essere i figli o i parenti del maestro, e mentre apprendevano il lavoro non ricevevano alcun salario. Anche i pittori e gli scultori avevano la loro bottega e i loro discepoli. Arti e mestieri si tramandavano di padre in figlio. La bottega era una famiglia più grande. Padroni e dipendenti mangiavano alla stessa tavola, dormivano tutti nello stesso stanzone. Le botteghe di un certo tipo erano concentrate nello stesso quartiere, spesso nella stessa via, che prendeva nome dall’arte che vi si praticava.
Nelle nostre città molti di quegli antichi nomi sono rimasti sulle targhe delle vie moderne: a Milano, per esempio, c’è ancora via degli Orefici, c’è via dei Mercanti; a Firenze via dei Calzaioli, ecc…; a Roma via dei Sediari, via dei Chiavari, via dei Giubbonari ecc… Qualche volta il nome della via preesisteva. Così per esempio a Firenze, in via di  Calimala si concentravano i tintori di stoffe francesi o inglesi e la loro associazione, dal nome della via, venne detta arte di Calimala.

Nel Medioevo gli artigiani non dovevano avere segreti
Molte città italiane hanno vie che traggono il nome di una qualche attività artigiana: via degli Orefici, via dei Carradori, via degli Spadari, e così via. Questo perchè nel Medioevo gli artigiani di una stessa corporazione abitavano il più delle volte nella stessa via. Qui le botteghe si stipavano. Erano viuzze in cui la luce penetrava difficilmente e il sole mai. E questa era una ragione per cui gli operai lavoravano vicino alla finestra. Ma un’altra ragione è che non si permetteva agli artigiani che avessero segreti: l’orafo o il fabbro dovevano avere fucina in bottega, lo scudaiolo doveva limare e tornire il rame solo sul banco presso la finestra. Nulla doveva essere nascosto agli occhi di chi passava o di chi voleva controllare.

Il popolo e i nobili
Tutto questo meraviglioso rigoglio di vita fu opera soprattutto del popolo lavoratore.
Accanto al popolo intraprendente e geniale viveva la classe dei cosiddetti nobili, trasferitisi dai loro castelli nelle città, con la stessa superbia e lo stesso spirito di violenza e di sopraffazione dei tempi feudali. Giravano costoro sempre armati e abitavano foschi palazzi merlati muniti di alte torri, da cui eran sempre pronti a gettar ferro e fuoco sugli assalitori.
Il popolo celebrava i suoi giorni di festa con cerimonie religiose e processioni solenni in onore del Santo Patrono, a cui si aggiungevano talvolta rappresentazioni di misteri riproducenti scene della passione di Cristo o episodi della vita dei Santi, da cui trasse le prime origini il nuovo teatro.
I nobili invece si trastullavano ancora in tornei, giostre, caroselli, quintane e in simili spettacoli di antico carattere feudale, a cui pure accorreva la folla curiosa.
Spesso però le rivalità e gli odi tremendi tra le famiglie dei grandi, i contrasti violenti tra le fazioni politiche (famose quelle dei Bianchi e Neri a Firenze) o le insurrezioni della plebe esasperata funestavano la fervida vita comunale, esplodendo talvolta in vere e proprie battaglie cittadine. Queste continue risse sanguinose, che spargevano il lutto e perpetuavano gli odi tra le famiglie, corruppero con l’andar del tempo le istituzioni comunali preparando le condizioni per l’avvento di un signore assoluto, unico moderatore della cosa pubblica.

L’arte e la vita culturale
Non solo la vita economica, ma anche la vita artistica e culturale ebbe nei Comuni italiani straordinario rigoglio.
L’architettura, nel duplice stile romanico con l’arco tondo, e gotico con l’arco acuto, popola di palazzi comunali, di duomi e cattedrali, di torri e di campanili, di case aristocratiche e borghesi le piazze delle cento e cento città d’Italia.
Nobili e borghesi, a gara, fecero sorgere con i loro contributi splendide costruzioni: ogni città ebbe il suo Palazzo del Comune, la Torre, l’Arengo, legge e chiese di bella architettura.
Tutta la penisola italiana ne è disseminata: la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, quella di San Marco a Venezia, le possenti cattedrali di Parma, Modena, Cremona, il Duomo di Milano, le chiese di Firenze, il Duomo di Pisa, quelli di Orvieto e di Siena, stupendi di marmi, di ori, di mosaici, di pitture.
Tutta l’arte si rinnovò per opera di grandi maestri: Arnolfo di Cambio, architetto; Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, pittori; Giovanni e Andrea Pisano, scultori.
E rifiorì anche la cultura, fino allora chiusa nei conventi, e ora aperta a tutti nelle Università, dette Studi. Famose, in Italia, quelle di Bologna e di Pavia per lo studio del diritto romano, e l’Università di Salerno per la medicina. Furono tutte di carattere internazionale, e per i loro professori chiamati per fama da un estremo all’altro d’Europa, e per i loro studenti che si trasferivano (clerici vaganti) da un’università all’altra, ad ascoltare i professori dalla cui fama erano attirati.
A Palermo, in Sicilia, sorse la prima scuola poetica italiana, continuata poi a Bologna e condotta a maggior gloria in Firenze soprattutto da Dante.

La cattedrale
Molte città italiane possiedono cattedrali erette nel Medioevo: romaniche (con l’arco a tutto sesto, impiantato su robuste colonne) o gotiche, secondo lo stile venuto dal nord (l’arco a sesto acuto, lo slancio delle colone e delle guglie verso l’alto). A elencarle non basterebbe una scheda: da Sant’Ambrogio di Milano a San Michele Maggiore di Pavia, dal Duomo di Piacenza a quello di Modena, dal San Zeno di Verona al Duomo e al Battistero di Pisa. Questi bellissimi monumenti dell’arte e della fede sono fioriti nell’epoca dei Comuni: essi sono, anzi, monumenti alla civiltà comunale. Erano eretti a spese del popolo intero.
Generazioni di muratori, di artigiani, di architetti, di scultori lavoravano per innalzarli ed abbellirli. La popolazione intera si appassionava all’opera, ne era orgogliosa perchè era cosa sua, il segno visibile della sua unità, della sua forza, anche della sua ricchezza. Prima di allora i grandi monumenti erano sorti per iniziativa di un imperatore, per servire alla sua gloria: il popolo del Comune glorificava se stesso, con un’impresa collettiva senza precedenti e della quale anche in seguito si trovano pochi esempi nella storia. Pittori e scultori arricchirono poi le cattedrali delle loro opere d’arte.

Le Università
“Parigi è la fonte della scienza, da cui si irradiano gli acquedotti del sapere che si allungano fino all’estremità del mondo”. Così ha scritto uno studente universitario  nel 1200. L’Università di Parigi fu uno dei più importanti centri di studio del Medioevo.
In Italia, già dal decimo secolo, i Benedettini avevano a Salerno una scuola per l’insegnamento della medicina, e nell’undicesimo secolo nacque a Bologna lo Studio Giuridico (cioè una Università per lo studio delle leggi).
In seguito, l’Italia ebbe moltissime Università assai frequentate.
In tutte queste scuole superiori gli studiosi di tutte le nazionalità parlano la stessa lingua, il latino, e professano gli ideali di una medesima fede; le Università perciò sono i centri di fusione del pensiero europeo e celebrano quell’unità e fraternità dei popoli che Roma aveva preparato con la legge  e il cristianesimo con il Vangelo.

Le campane comunali
Ogni Comune aveva la sua campana che con la voce austera raffigurava il simbolo onnipresente del Comune.Tutti i cittadini accorrevano quando la campana chiamava a raccolta. Era la voce stessa del Comune. Ed ogni campana oltre a decorazioni più o meno ricche, alla data e alle raffigurazioni allegoriche, recava incise frasi di incitamento e di devozione alla patria.

L’aspetto di una città nell’età comunale
La città medioevale è quasi sempre piccola. Tra noi solo Venezia, Milano, Firenze, hanno talvolta superato i centomila abitanti; ma le altre città restano assai al di sotto.
Da principio l’aspetto delle città comunali non dovette essere molto attraente. Case basse di legno o di mattoni crudi, coperte di tegole o di paglia o di canne, addossate le une alle altre; tetti molto sporgenti e piccole finestre per lo più chiuse con impannate di tela o di carta; vie strette, irregolari, luride, dove tra i rifiuti delle case vivevano in libertà maiali e galline: ma vie già animate da mercanti e da artieri e sonanti di opere varie; botteghe aperte sulle strade, veri bazar nei quali erano esposte le cose più necessarie alla vita quotidiana. Qua frutta ed erbaggi, là carni e selvaggina, uova, vino, pesce e formaggi, più in là utensili domestici e attrezzi agricoli e armi. Qua e là, tuttavia, massicce e solide costruzioni di pietra e di mattoni, merlate e turrite, annerite dal tempo e talora dal fuoco, ricordo perenne d fiere lotte civili. E poi la chiesa col suo sagrato, dove si seppellivano i morti, specialmente i nobili e gli ecclesiastici. E infine il palazzo del Comune, pur esso merlato e turrito, e rumoroso di soldati e giudici, di notai e contabili, di consiglieri e cittadini.
Ma nel secolo XII, col nascere della ricchezza privata e pubblica, l’aspetto esteriore delle città si fa migliore; alle case di legno succedono case nuove e comode, di pietra e mattoni; cominciano a selciarsi le vie più importanti e le piazze di maggior commercio; si spazzano le vie, si restaurano le facciate delle case, si regolano le fiere e i mercati; e sorgono più fieri i palazzi del Comune, più maestose le Cattedrali, più irti i palazzotti dei signori feudali o delle famiglie nobili. Le grandi ricchezze accumulate con le industrie e i commerci permettevano, specialmente nel secolo XII, di innalzare magnifiche sedi per le arti, e logge, e chiese, e ospedali, e monumenti funebri: tanto più che gli uomini del popolo, pur essendo dediti alla mercatura e alle industrie, avevano  raffinato il gusto dell’arte. (Pochettino – Olmo)

Case dell’epoca comunale
Normalmente la casa era a tre piani e aveva una sola stanza per piano. La stanza del pianterreno serviva da sala bassa: lì la famiglia pranzava. Il primo piano era elevatissimo, come mezzo di sicurezza; è questo il particolare più notevole della costruzione. In questo piano una camera, nella quale il padrone di casa abitava con la moglie. La casa era quasi sempre fiancheggiata da una torre d’angolo, il più delle volte quadrata. Al secondo piano una stanza che probabilmente serviva ai bambini e al resto della famiglia. Al di sopra, assai spesso, una piccola piattaforma, destinata evidentemente a servire da osservatorio. (A. Saitta)

La casa – torre
Molte città italiane conservano qualche torre del Medioevo. A San Gimignano ne sono  rimaste decine. Nell’età dei Comuni, Firenze giunse ad averne fino a centocinquanta. Bologna non ne ebbe forse meno.
Queste torri non facevano parte del sistema difensivo  del Comune, che aveva le sue mura e le sue porte, ben guardate. Erano abitazioni, case-torri, in cui le famiglie più ricche e  potenti si rinserravano come in una fortezza privata.
Per passare da un piano all’altro ci si serviva di scale che, all’occorrenza, potevano essere tolte.
Nelle città le lotte di fazioni erano frequenti e sanguinose, e chi poteva si premuniva contro gli attacchi dei suoi nemici. Aver la torre più alta, poi, diventava una ragione di prestigio e, finchè i  Comuni imposero di non superare una certa altezza, le famiglie gareggiavano a colpi di piani. A San Gimignano vi mostrano ancora qualche torre più bassa e vi narrano che appartenne a una famiglia sconfitta, che dovette abbattere un piano o due per imposizione del vincitore. Sarà una leggenda, ma rende l’atmosfera di certe antiche contese familiari ed aiuta a capire che cosa furono, all’interno dei Comuni, le lotte fra Guelfi e Ghibellini, ecc… Lenta e difficile fu la nascita di una nazione italiana.

Feste comunali
Le feste religiose erano le maggiori occasioni di svago e di divertimento nelle città medioevali.
A Firenze la più grande festa dell’anno era la festa di San Giovanni, patrono della città. Essa era caratterizzata da una solenne processione, aperta dai capi del Comune, il Podestà e il Capitano del Popolo, e dai Priori delle arti. Ogni arte sfilava col suo gonfalone: era la grande parata del Comune. Le arti erano le associazioni di mestiere, le Corporazioni, di cui facevano parte tutti gli artigiani e i loro dipendenti. Non si poteva esercitare la fabbricazione e il commercio della lana se non si apparteneva all’arte dei Lanaioli.
Il medico e lo speziale appartenevano alla stessa arte. Vi erano a Firenze, sette arti maggiori e quattordici minori. Le arti dettavano legge in materia di orari di lavoro, di prezzi, di salari, di qualità della merce. Erano leggi minuziose e severissime. Alcune arti si intromettevano anche nella vita privata dei loro associati. Per esempio, proibivano al socio di prender moglie senza chiedere il permesso ai suoi compagni.
Era tutt’altro che facile passare da un’arte all’altra.
Tanto rigore non poteva impedire le disuguaglianze. I mercanti e i banchieri più ricchi divennero così forti da diventare “signori” della città.

I COMUNI materiale didattico

I giochi
Accanto alle feste religiose, e talvolta in coincidenza con esse, si svolgevano nelle città medioevali giochi popolari e spettacoli che in parte sono giunti fino ai nostri giorni.
Questo non si può dire del “gioco del pallone” che si giocava a Firenze, e che è assai diverso dal nostro calcio, di cui sono stati gli Inglesi del secolo scorso a fornire le regole. Spesso però, a Firenze, l’antico gioco è rievocato con partite in costume che richiamano gran folla di turisti.
A Siena, invece, si correva il Palio delle contrade: e si corre ancora oggi con lo stesso accanimento, con le stesse sfide tra fantini e rioni, con lo stesso accompagnamento di sfilate e di bandiere.
Ad Arezzo si correva, e si corre tuttora una volta all’anno, la giostra del Saracino: cavalieri armati di lancia, a turno, si gettavano al galoppo contro un fantoccio addobbato con abiti orientali, per colpirlo in modo da farlo girare su se stesso. Altri giochi di questo genere si svolgevano in molte città italiane. Ricordiamo ancora la “partita a scacchi” che si giocava a Marostica, nel Veneto: uomini e donne in costume aveva il ruolo del re, della regina, degli alfieri e dei pedoni. Forse avreste visto una partita del genere rievocata alla televisione: ha l’aria di un elegantissimo balletto.

I COMUNI materiale didattico

La prosperità di Firenze
La popolazione di Firenze, saliva a novantamila.
Erano più di millecinquecento i forestieri; si contavano ottantamila abitanti nelle terre sottoposte alla giurisdizione del Comune.
Le chiese sommavano a centodieci; ventiquattro erano i monasteri di monache con cinquecento donne; cinque le badie con ottanta monaci; tre gli ospedali con più di mille letti per poveri e infermi.
Le botteghe dell’arte della lana erano duecento e più, e facevano da settanta a ottantamila panni, dando vita a più di trentamila persone.
I fondachi dell’arte di Calimala (lavorazione dei tessuti grezzi) dei panni francesi e oltremontani erano circa venti, che facevano venire ogni anno più di diecimila panni per il valore di trecento migliaia di fiorini d’oro (il fiorino era la moneta di Firenze); che venivano venduti tutti in Firenze, senza contare quelli che si mandavano fuori.
I banchi dei cambiatori di moneta erano circa ottanta.
La moneta d’oro che si batteva era per circa trecentocinquantamila fiorini, e talora quattrocentomila.
Il collegio dei giudici era di circa ottanta; i notai seicento; i medici, i fisici, i chirurghi, sessanta; le botteghe degli speziali circa cento.
Mercanti e merciai erano tanti, da non potere sistemare le botteghe dei calzolai, pianellai e zoccolai; erano trecento e più quelli che andavano fuori di Firenze a negoziare, e molti altri maestri di più mestieri e maestri di pietra e legname.
Aveva allora Firenze centoquarantasei forni. (G.  Villani)

Il più antico dei liberi Comuni d’Italia
Un solo Comune italiano mi si trasformò in Signoria, anzi ancora sussiste nella sua interezza,  tanto da essere degno del titolo di più antico Comune d’Italia. Rimasto sempre libero, non vi fu mai potente confinante che riuscisse ad assorbirlo, nè perdette la sua autonomia quando tutti gli stati accettarono l’annessione al Piemonte durante i Risorgimento: italiano per lingua e tradizione, volle comunque restare indipendente e sovrano. Retto da un’antica costituzione repubblicana, il piccolo Comune, si trova tra Marche e Romagna, vive ancora nella fiera autonomia: è la Repubblica di San Marino.

La lingua volgare
Nei monasteri si pregava e si scriveva in lingua latina. Nei castelli si cantavano le gesta dei Paladini in lingua francese.
Nei Comuni, invece, gli artigiani parlavano una lingua nuova, che proveniva dal latino, ma sembrava rozza e corrotta. Era la lingua del volgo, cioè del popolo che non aveva studiato. Si chiamava perciò lingua volgare.
Da prima, questo rozzo dialetto era una lingua soltanto parlata. Poi venne scritta in qualche documento privato. Infine fu usata dai letterati e dai poeti.
Specialmente a Firenze, questa lingua divenne dolce e aggraziata. La usarono perciò tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Per merito loro la lingua volgare si nobilitò, divenne la lingua italiana che ancora oggi usiamo.

Guelfi e Ghibellini
Un nobil giovane di Firenze, Buondelmonte de’ Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla della famiglia Amedei. Ora avvenne che Buondelmonte, cavalcando un giorno per la città, passò davanti alla casa dei Donati, ove lo chiamò una gentildonna dal balcone, che mostrandogli la sua figliola bellissima, gli disse: “Chi vuoi prendere per moglie? Questa ti avevo serbata io”.
La vide il cavaliere e ne fu subito sì preso, che la tolse per donna, scordando l’altro parentado. Di ciò sdegnati, gli Amedei e  i parenti loro deliberarono di vendicarsi; e nel giorno di Pasqua venendo Bondelmonte d’oltre Arno su un bianco palafreno, lo assalirono ai piedi del Ponte Vecchio e lo uccisero (1215).
Per questo omicidio tutta la città corse alle armi, e le famiglie si divisero in due, le une seguendo i Buondelmonti, e le altre gli Uberti ed Amedei, e sconvolsero per molti anni la patria, tenendo quelli il partito ed il nome di Guelfi, e questi di Ghibellini. (D. Compagni)

Curiosità
Al tempo in cui i Comuni italiani vivevano isolati uno dall’altro come altrettanti stati indipendenti, si ebbero fra essi varie lotte e anche per i motivi più futili.
Ad esempio una secchia che i Modenesi rubarono a quelli di Bologna fu causa di guerra tra le due città; un ambasciatore di Firenze promise a un cardinale il suo cagnolino, ma lo promise anche a un Pisano, da cui venne guerra accanita tra le due città. Perugia e Chiusi si azzuffarono per un anello, che si diceva essere quello donato da san Giuseppe alla Madonna il giorno del loro matrimonio. Per un chiavistello si accapigliarono Anghiari e Borgo san Lorenzo.

Grandi uomini del periodo comunale
San Francesco nacque in Assisi nel 1182. Suo padre era un ricco mercante di stoffe. Trascorse la sua giovinezza in allegre brigate, partecipando alle guerre che si accendevano fra l’uno e l’altro Comune. Durante una delle sue avventure militaari, cadde gravemente malato e sentì, all’improvviso, la chiamata di Dio. Tornato in Assisi, lasciò ogni ricchezza, vestì un ruvido saio e andò predicando la povertà, la purezza di cuore, l’amore tra gli uomini e per tutte le creature.
Attorno a lui vennero molti discepoli ed egli li accolse nell’ordine dei Frati Minori.

san francesco

Marco Polo. I più grandi viaggiatori del Medioevo furono i veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo,  figlio di Niccolò. Essi lasciarono Venezia nell’anno 1271 e giunsero, dopo anni di cammino, nella misteriosa città di Cambaluc (Pechino), dove viveva il Gran Kan, cioè l’imperatore dei Tartari. I tre veneziani furono ben accolti dall’Imperatore, che amò moltissimo Marco e lo nominò perfino governatore di una regione assai vasta. Marco potè così viaggiare e conoscere i costumi e le tradizioni di tanti popoli.
Dopo anni e anni di lontananza dalla loro città, i tre viaggiatori desideravano rivedere la loro patria. Il Gran Kan li lasciò partire, dopo averli pregati di accompagnare nel viaggio la propria figlia che andava sposa al re di Persia.
Fatta l’ambasciata, i Polo proseguirono e poi, con alcune navi, sbarcarono a Venezia. Erano così cambiati nell’aspetto e vestivano in maniera così strana che gli amici non li riconobbero.
Nell’anno 1298, durante la guerra tra Venezia e Genova, Marco rimase prigioniero. Mentre era in carcere, egli dettò a Rustichello da Pisa la storia del meraviglioso viaggio nel Catai. Nacque così il Milione, un libro bello come una fiaba.

Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265. Frequenti erano a quel tempo le lotte fra i partiti di una stessa città e proprio per queste lotte, Dante fu esiliato e dovette andare, quasi mendico, di corte in corte, ospite di vari Signori.
Durante l’esilio compose la sua più grande opera, la Commedia, che fu poi detta Divina, nella quale il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, cioè attraverso i regni della morte, della speranza e della gloria dell’anima.
Dante morì a Ravenna nel 1321 e fu sepolto con grandi onori nella Chiesa di San Francesco.
Così lo descrisse un giorno un suo concittadino: “Fu grande letterato e dottore in ogni scienza, sommo poeta e filosofo.” Scrisse la Commedia, il poema in versi dove immaginò di essere stato nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e di aver parlato con le anime che vi si trovano. In questo modo potè mettere in versi le sue cognizioni scientifiche, astronomiche e politiche.
Dante fu esiliato da Firenze perchè prevalse la fazione contraria a quella nella quale militava; ma con le sue nobili opere diede grandissima fama alla sua città. (G. Villani)

Dante e il fabbro
Dante Alighieri una volta udì un fabbro, il quale, battendo il ferro, accompagnava il proprio lavoro cantando i versi della Divina Commedia.
Per adattare quei versi al suo lavoro li allungava, li scorciava, lo storpiava. Era un vero strazio! Dante Alighieri, che si faceva prendere facilmente dall’ira, entrò nella bottega del fabbro, gettando in mezzo alla strada martelli e tenaglie.
“Perchè rovini la mia arte?” gli gridò il fabbro indignato.
“E tu, perchè sciupi la mia?”.
Il fabbro rimase interdetto.
“Io non danneggio nessuno”
“Danneggi la mia arte. Io sono l’autore dei versi che cantando alteri e storpi!”.
Se ci fosse stata l’Arte dei Poeti, Dante avrebbe potuto ricorrere ai suoi Priori. Ma quell’Arte non c’era e se il poeta volle entrare nel governo della città, dovette iscriversi all’Arte dei Medici e Spaziali.
Come speziale, fu eletto Priore nel 1300 ed entrò nel governo del libero Comune di Firenze. (P. Bargellini)

dante alighieri

Giotto di Bondone
Giotto nacque a Vespignano nel 1266. Suo padre, di nome Bondone, era contadino e Giotto lo aiutò custodendo il gregge.
Un giorno, mentre su una pietra disegnava una pecora, passò di là Cimabue, il più grande pittore di quel tempo. Egli si meravigliò dell’abilità del pastorello e lo portò con sè a Firenze.
Ben presto Giotto superò il maestro e fu chiamato a dipingere in ogni parte d’Italia. Ad Assisi affrescò molti episodi della vita di San Francesco, a Firenze progettò il bel campanile di Santa Maria in Fiore. Morì a Firenze nel 1336.

Una buffa di Buffalmacco
Nel Trecento vissero in Firenze uomini di grandissimo ingegno: poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio; pittori famosi come Cimabue, Giotto e tanti altri. Con le loro opere essi dettero gloria e bellezza all’Italia e al mondo. Molti di questi artisti erano tipi bizzarri e buontemponi che amavano inventare burle sulle quali si facevano matte risate.
Anche Buffalmacco era un bravo pittore del Trecento, ma non aveva la voglia di lavorare che dimostrava invece Giotto. Gli piaceva mangiare e bere, forse perchè essendo povero mangiava e beveva sempre poco. Veniva chiamato a dipingere nei conventi, e si sa, nei conventi il cibo non è mai ne abbondante ne appetitoso.
Una volta capitò in un convento dove, quasi tutti i giorni, si mangiava cipolla. Al pittore la cipolla piaceva poco, e quando si vedeva portare quel piatto storceva la bocca.
Ma come dire al Padre Guardiano che quel cibo non gli andava a genio? Pensò allora di fare una burla e si mise a disegnare tutte le figure di schiena, con le facce che non si vedevano.
Il Padre Guardiano, che tutti i giorni si recava a vedere come procedesse il lavoro di Buffalmacco, notò la cosa e chiese all’artista: “Come mai non fate le figure da quest’altra parte, con la faccia rivolta in fuori, in modo che si possano vedere i volti dei personaggi?”
“Caro Padre” rispose serio il pittore “le disegno rivolte in qua, ma poi, mentre dipingo, essi si rigirano e nascondono la faccia. E sapete la ragione? Perchè il mio fiato puzza talmente di cipolle, che le figure non lo sopportano, e rivoltano la faccia dall’altra parte”.
Il Padre Guardiano capì la burla e da quel giorno, invece di cipolle, fece servire al pittore altri cibi più saporiti e appetitosi.
Le figure di Buffalmacco, allora, tornarono a mostrare i loro volti dalla parte giusta! (P. Bargellini)

Vita comunale
I mezzi di trasporto sono scarsi, perciò il movimento cittadino è poca cosa. La gente va a piedi, il passaggio di un nobile a cavallo attira le comari alla finestra; scarsi i carri che si destreggiamo penosamente fra le strettoie e le tortuosità delle strade; più frequente il passare di giumente cariche di sacchi e di mercanzie. Solo il centro è animato. Nei giorni di mercato la piazza del Comune è tutta un formicolio di folla intorno ai banchi dei venditori, un vociare confuso di sensali e di compratori, mentre il cantastorie grida alto, strimpellando la sua chitarra per tirar gente, e il banditore, a suon di tromba, annuncia gli ordini del Podestà. Quando la sera cade, la campana del duomo suona il coprifuoco; si chiudono le botteghe e le case; un silenzio profondo invade le vie, immerse in un buio pauroso,  rotto solamente qua e là dal barlume di una lampada accesa davanti a una Madonnella, o dal balenio improvviso delle lanterne degli ultimi passanti. (A. Manaresi)

L’arte della lana a Firenze
Situata sull’Arno, lontana dal mare, Firenze non poteva sperare di avere una parte importante nel commercio. Perciò i suoi cittadini si dedicarono all’artigianato. Impararono l’arte della tessitura dagli orientali e la perfezionarono.
La corporazione di Calimala, cui era affidata la rifinitura e il raffinamento dei tessuti, creò nel campo della tintura un procedimento nuovo che venne tenuto gelosamente segreto.
I fiorentini riuscirono a migliorare l’apprettatura e la preparazione e in particolar modo a conferire alle stoffe una così splendida lucentezza che la loro produzione divenne presto celebre e richiesta su tutti i mercati europei.
Poichè la lana della Toscana non bastava, la si faceva venire dalla Francia, dalle Fiandre e perfino dall’Inghilterra. Giganteschi carri coperti partivano da Gand, passavano per Bruxelles, Parigi, Avignone, Marsiglia, e dopo aver superato gli Appennini arrivavano  a Firenze.
Talvolta i mercanti fiorentini facevano tessere la loro lana nelle Fiandre e in Francia; essa però veniva sempre tinta a Fireze con coloranti, soprattutto l’indaco, importati di solito dall’Oriente.
Nel 1338 esistevano a Firenze più di 200 opifici che producevano annualmente da 70 a 80.000 pezze.
Ovunque i clienti chiedevano stoffe fiorentine, perchè in tutta Europa non c’erano tessuti così perfetti. (E. Samhaber)

Così giurava il podestà di un Comune
Pur diverse nelle apparenze, sostanzialmente uguali erano le formule dei giuramenti dei podestà comunali; giuramenti che li impegnavano al rispetto delle leggi liberamente volute dai cittadini del comune.
Così, per esempio, giurava sul finire del XIII secolo il podestà di Verona:
“Nel nome di Dio onnipotente, e del figliol suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, e della santa gloriosa e sempre Vergine Maria, e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e dei santi arcangeli Michele e Gabriele, giuro di prestare alla città e comunità e università di Verona una coscienza pura e un fraterno servigio, in ossequio all’amministrazione che mi è stata affidata. Giuro altresì che cercherò di pacificare tutte le discordie che sono o che saranno in futuro in questa città o nel distretto che la riguarda; di ricondurvi la pace al più presto possibile, specie se ne sarò sollecitato; giuro infine che non sarò spia o guida ai danni di Verona e a vantaggio dei suoi  nemici. Non perpetrerò furto o frode delle cose del comune con nessun mezzo nè acconsentirò che altri lo facciano. E costringerò con tutti i mezzi a mia disposizione coloro che lo avessero commesso, a restituire.
Dichiaro di essere soddisfatto delle 3000 lire di denaro e dell’alloggio e stallo del comune di Verona e della mobilia che ivi si trova, così come dichiaro di essere soddisfatto delle 1000 lire che mi vengono date come rifusione per le mie perdite e danni; e anche di quelli che mi vengono dati come subalterni, e della scorta armata che mi viene attribuita, e dei dodici soldati armati che terrò a mie spese e al servizio del comune per tutto il tempo della mia carica.
Cessato dal mio incarico, mi fermerò per quindici giorni ancora con i giudici del comune e con i soldati che sono stati con me, e mi fermerò in città a spese del comune, per le ultime consegne: farò giustizia di tutti coloro che avranno da far lamentele contro il mio operato, dei giudici e dei soldati.
Se qualcuno avrà scalfito un po’ d’oro dai denari veronesi, io se potrò, non appena conosciuta la verità su tale delitto e senza fare inganno per non conoscerla, farò troncare la mano al reo. Così proibirò che, durante tutto il mio governo, si tengano scrofe in città o negli immediati sobborghi. Proibirò il gioco d’azzardo o dei dadi o del bianco e nero, facendo eccezioni per i giochi della dama o degli scacchi; e chi contravviene sarà multato con venti lire”.

Ambiziose origini dei Comuni
L’ammirazione degli Italiani per Roma era tale, ai tempi dei comuni, che ogni città pretendeva di avere origini che si innestassero in un modo o nell’altro nella più antica storia dell’Urbe.
Firenze, ad esempio, diceva che perfino lo stemma cittadino, il giglio, era di origine romana, e il cronista fiorentino Giovanni Villani, che alla sua città dedicò la maggior opera sua, racconta che al tempo di Numa Pompilio, per divino miracolo, cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio “per la qual cosa e augurio i Romani presero quello stemma e poi vi aggiunsero S.P.Q.R. in lettere d’oro, cioè senato e popolo romano.
Così a Perugia, a Firenze e a Pisa; ma i Fiorentini, per il nome della città, vi aggiunsero per intrassegno il giglio bianco; e i Perugini talvolta il grifone bianco e Viterbo il campo rosso e Orvieto l’aquila bianca.
La città di Firenze era in quel tempo come figliola e fattura di Roma in tutte le cose, da Romani abitata… E un tale Uberto Cesare, soprannominato Giulio Cesare, che fu figliolo di Catilina, rimasto in Fiesole giovinetto ancora dopo che quello morì, proprio per opera di Giulio Cesare fu fatto grande cittadino di Firenze; e avendo molti figlioli, egli e la sua discendenza furono per lungo tempo signori di quella terra; i loro discendenti furono grandi signori e capostipiti delle famiglie fiorentine.” (M. Bini)

Dalla società feudale alla società comunale
Tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio dell’era cristiana, la crisi del feudalesimo si fece più profonda. Il sistema era già stato scosso dalle lotte fra i grandi feudatari e l’imperatore; lo fu ancora di più quando si acuirono i contrasti tra vassalli e valvassori (questi ultimi otterranno, nel 1037, l’ereditarietà dei loro possessi) e tra la feudalità laica e quella ecclesiastica.
Nelle campagne si manifestarono fermenti di vita nuova, dopo che l’oscuro timore di grandi catastrofi naturali al sopraggiungere dell’anno mille (si parlava addirittura della fine del mondo) si rivelò del tutto infondato.
L’agricoltura aveva rappresentato negli ultimi secoli l’unica attività economica praticata su larga scala, ma le condizioni di vita dei contadini, soprattutto dei servi della gleba e dei coloni vessati dai loro signori, erano assai modeste; per di più la popolazione rurale andava aumentando molto rapidamente.
Da questa situazione ebbero origine le richieste di svincolo dalla servitù della gleba e di patti, di contratti scritti, di carte più favorevoli e non modificabili ad arbitrio del proprietario, richieste che portarono, se accolte, ad un’ulteriore allargamento delle aree messe a coltura, e se respinte, alla fuga dei contadini dalle campagne verso la città.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

La città
La decadenza, in epoca feudale, delle città non aveva riguardato proprio tutti i centri urbani; in alcuni si era mantenuta viva la tradizione artigianale o commerciale, anche se la circolazione dei prodotti era diminuita e l’uso della moneta si era fatto più raro.
L’aumento generale della popolazione si ripercosse anche sulla vita delle città, amministrate di solito da un feudatario ecclesiastico, il vescovo-conte, il quale poteva godere di una certa autonomia, dato che il feudo era vitalizio e non trasmissibile.
L’accresciuto numeri dei cittadini (molti dei quali provenivano dalla circostante campagna  o dai borghi feudali, quando non erano addirittura nobili e feudatari minori) creò una serie di problemi nuovi, collegati anche al rifiorire della produzione di beni di consumo e del loro scambio con altre merci in mercati e fiere sempre più frequentati, mentre anche la moneta faceva la sua riapparizione in grande quantità.
Alla soluzione dei problemi che le toccavano da vicino si impegnarono direttamente tanto la piccola nobiltà inurbatasi quanto la nascente classe sociale della borghesia (grossi artigiani e mercanti), dando vita ad associazioni, regolate da proprie norme, in grado di tutelare gli interessi comuni dei membri e di ottenere e di esercitare, sempre in comune, nuovi diritti e privilegi.
In seguito tali associazioni ottengono o conquistano di partecipare ancora più attivamente alla cura degli interessi di tutta quanta la città sino a sostituirsi, grazie alle immunità ed ai privilegi via via acquisiti, ai signori feudali ed ai vescovi-conti nel pieno governo della città stessa.
E’ nato così il Comune, piccolo Stato che inizialmente ha per confine la cerchia delle mura cittadine e che sceglie i propri governanti tra coloro che abitano appunto entro detta cerchia.
Il Comune si comporta come uno Stato sovrano: esercita i poteri politici, civili, militari; ha un proprio esercito, si dà le leggi, amministra la giustizia; impone tributi e batte moneta; dichiara la guerra. Sarà proprio in questo suo comportamento da Stato autonomo la causa dei lunghi, ripetuti, sanguinosi conflitti che coinvolgeranno da una parte i sovrani dell’Impero, intenzionati a restaurare la loro autorità nelle città che ritenevano ribelli perchè si erano rese arbitrariamente indipendenti (erano prerogativa del re coniare monete, dare le leggi, concedere il gradimento alla nomina dei magistrati, riscuotere i tributi, ecc…), e dall’altra i Comuni dell’Italia settentrionale, desiderosi di conservare l’indipendenza acquisita e di estendere la sovranità anche sui possessi feudali del contado.
La lotta sarà particolarmente aspra durante il regno di Federico I di Svevia (la Casa succeduta a quella di Franconia sul trono di Germania, d’Italia e dell’Impero), sceso ripetutamente con i suoi eserciti nella pianura padana, più volte vittorioso e distruttore di città (Milano, 1162), battuto infine a Legnano (1176) dalle truppe fornite alla Lega Lombarda dai Comuni della Regione (e la Lega godeva pure dell’alto appoggio dell’autorità del Pontefice Alessandro III) e costretto a sottoscrivere la pace di Costanza (1183), che riconoscerà ai Comuni il godimento dei diritti acquisiti e ridurrà la sovranità imperiale ad una formalità.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Classi sociali e ordinamenti
Le situazioni in cui si dormano e si sviluppano i Comuni sono molto diverse tra loro. Le vicende di Milano, il più importante centro di vita comunale nella pianura padana, solo in parte sono simili a quelle di Firenze o di altri Comuni dell’Italia centrale.
Una maggiore uniformità si può invece riscontrare nelle classi sociali e negli ordinamenti che li caratterizzano.
Anche nel Comune, che pure contrapponeva il principio dell’uguaglianza politica e civile dei suoi abitanti al principio della stretta gerarchia e delle dipendenze del sistema feudale, esistono di fatto più classi sociali, dalla nobiltà alla plebe. Sarà proprio l’ascesa economica e politica delle classi inizialmente meno potenti a costituire uno dei motivi fondamentali dell’età comunale.
Il governo del Comune è repubblicano; la sovranità risiede nelle mani del popolo, il quale, riunendosi nell’Assemblea Generale, detta anche Parlamento o Arengo o Concione, delibera sulle questioni più gravi d’interesse comune (guerra, pace, trattati) ed elegge i magistrati annuali cui spetta il potere esecutivo, i Consoli, che sono due o più a seconda dell’importanza del Comune.
Alle volte il Consiglio maggiore sostituisce l’Assemblea generale dei liberi cittadini.
Il Consiglio minore o Senato o Consiglio di Credenza aiuta e regola l’attività dei Consoli; è composto dai cittadini più influenti o da loro familiari ed esprime, in pratica, la volontà della classe dominante.
Tale ordinamento rispecchia la vita politica nei secoli XI e XII, quando il Comune è ancora impegnato a lottare contro i feudatari per raggiungere la piena libertà; il potere è nelle mani dei nobili o magnati o grandi (feudatari minori trasferitisi in città, mercanti, grossi artigiani, proprietari di case e di terreni entro la cerchia delle mura).
Il secolo XIII è caratterizzato da continue discordie interne che oppongono tra loro partiti e classi. I Consoli sono troppo legati a particolari interessi cittadini per garantire assoluta e costante imparzialità: al loro posto viene eletto un magistrato unico, il Podestà, chiamato in città dalla sua residenza abituale; un forestiero, dunque.
Intanto il cosiddetto popolo grasso, composto da mercanti, da banchieri, e da grossi artigiani organizzati in Corporazioni o Arti maggiori, cerca di limitare il potere dei nobili e di sostituirli al governo della città.
Accanto al podestà viene eletto un Capitano del Popolo, che rimarrà solo in carica dopo l’affermazione della borghesia.
Altre istituzioni si affiancano a quelle preesistenti, se ancora valide. Sono il Consiglio delle Arti o dei Priori, che raggruppa i rappresentanti delle singole Arti (un priore è a capo di ogni Arte, maggiore media o minore che sia) e che aiuta il Capitano del Popolo nelle sue mansioni, ed il Consiglio del Popolo con compiti quasi analoghi.
La borghesia raggiunge il potere nella seconda metà del XIII secolo, ma non per questo cessano le lotte interne nelle città. Anche il popolo minuto, infatti, quello delle Arti medie e minori, esige la sua parte di governo e tumultuano perfino i rappresentanti della plebe, composta di lavoratori per lo più salariati, ad esempio gli operai degli opifici e dei laboratori ove si tessono e tingono le stoffe.
Non dovunque e non sempre il popolo minuto può accedere al potere, però il suo contributo allo sviluppo economico del Comune resta rilevante.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Le corporazioni
L’istituzione più tipica della vita associata, a parte la Chiesa, era la corporazione, e queste due basi di un’esistenza fondata sulla solidarietà, sul lavoro collettivo e su una fede comune erano associate nella città medioevale.
La corporazione non perdette mai il suo fondamento religioso. Rimase una confraternita conviviale, che si attribuiva particolari compiti economici e responsabilità commerciali, ma non si esauriva in essi.
I confratelli mangiavano e bevevano insieme in occasioni regolarmente ripetute, fissavano ordinanze attinenti alla loro arte, progettavano e finanziavano sacre rappresentazioni a edificazione dei concittadini.
Nei periodi prosperi costruivano cappelle, donavano messe di suffragio, fondavano scuole elementari (le prime scuole laiche dalla fine dell’evo antico) e al colmo del loro potere si costruivano una sede a volte sontuosa come il mercato dei panni di Ypres. Intorno alla loro arte edificavano un’intera vita rivaleggiando amichevolmente con le altre corporazioni e, da buoni fratelli, si alternavano nel presidiare le mura adiacenti al loro quartiere.
Se le corporazioni dei mercanti precedettero in genere di mezzo secolo quelle degli artigiani, bisogna però ricordare che, tranne che per i traffici internazionali, la linea divisoria tra mercanti e artigiani non era molto precisa, in quanto l’artigiano lavorava per vendere l’eccedenza della sua produzione.
Nel periodo iniziale gli artigiani entravano così a far parte delle corporazioni dei mercanti  e ne costituivano probabilmente la maggioranza: e così più tardi anche gli esponenti dell’ordine feudale o gli intellettuali che desideravano partecipare al governo cittadino dovevano diventare membri di una corporazione, per esempio di quella degli speziali o dei pittori.
La corporazione dei mercanti organizzava e controllava la vita economica dell’intera città, fissando le condizioni di vendita, proteggendo il consumatore dalle estorsioni e l’onesto bottegaio dalla concorrenza sleale, impedendo infine che il mercato locale venisse turbato da influenze estranee.
La corporazione degli artigiani era invece un’associazione di maestri nei diversi mestieri allo scopo di regolare la produzione e di fissare i criteri di esecuzione.
Entrambe queste istituzioni finirono per trovare espressione nella città: la prima nella loggia dei mercanti, la seconda nel palazzo delle corporazioni, risultato di uno sforzo collettivo o, come a Venezia, in una serie di sedi apposite, una per ogni arte.
Probabilmente le prime sedi di questi organismi erano modeste casette o stanze prese in affitto, oggi da tempo scomparse, come quelle degli antichi colleghi di cui abbiamo qualche testimonianza.
Ma gli edifici che ci sono rimasti rivaleggiano spesso in magnificenza con i Palazzi di Città e con le cattedrali.
L’importante funzione svolta dalle corporazioni nella città medioevale sino al Quattrocento denota che il lavoro, e in particolare il lavoro manuale, era ormai tenuto in ala considerazione, e anche questo fu in buona parte merito della Chiesa, un po’ perchè aveva dato adeguata importanza alle attività dei poveri e degli umili, e soprattutto perchè, con la regola benedettina, aveva accettato la fatica manuale come componente essenziale del viver bene: “lavorare e pregare”.
La vergogna del lavoro, questo penoso retaggio delle culture servili, a poco a poco scomparve, e le frequenti prodezze degli artigiani e dei mercanti in battaglia diedero un duro colpo alle pretese dei signori feudali i quali disprezzavano ogni forma di fatica fisica eccetto la caccia e la guerra.
Una città dove la maggioranza degli abitanti erano liberi cittadini che lavoravano uno accanto all’altro in condizioni di parità, e senza schiavi ai loro ordini, era un fatto nuovo nella storia urbana. (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Il Comune rustico

L’epoca dei Comuni fu gloriosa per l’Italia. Carducci, profondo conoscitore della storia d’Italia e poeta, ricostruisce la vita di uno dei tanti Comuni italiani, piccolo sì, sperduto tra i monti, presso Udine, ma tanto valoroso e saldo nei suoi ordinamenti. La fantasia, nella ricostruzione poetica, non prevale sulla verità storica. Orgoglio, valore, fede sono i sentimenti che pervadono la composizione; da ammirare il quadretto conclusivo.

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
Un fremito d’orgoglio empiva i pettti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì. (G. Carducci)

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero…
Addio, o alberi di noci della Carnia, sia che (o che) al sole puro e leggero del mattino la vostra ombra si stampi solitaria (erma) sui prati di color verde vivo (campi smeraldini) tra i faggi e gli abeti, sia che si stenda cupa (foscheggi) e immobile sul far della sera (nel giorno morente) sulle case (ville) intorno alla chiesa, da dove si alzano le preghiere, o al silenzioso cimitero.

…che tace, o noci de la Carnia, addio!…
Le Prealpi Carniche, poste a nord della pianura friulana, sono ricche di alberi di noci; ed è questo elemento caratteristico del paesaggio che il poeta, partendo, saluta con nostalgia e tenerezza.

…Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu…
Il pensiero del poeta erra tra i rami dei noci e corre al tempo passato.

…Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,…
Il Carducci ci precisa quale passato vada egli rievocando: non le manifestazioni dello spirito nordico con paurose leggende di morti e conciliaboli di streghe e diavoli, ma l’affermazione della civiltà latina su quella barbarica nell’organizzazione e nella vita di un libero Comune rustico, quale doveva essere in quelle zone montuose della Carnia, poste presso il confine e soggette ad invasioni.

…ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa…
Ma vedo nel giorno della festa (probabilmente  quella del santo protettore del Comune) dopo la messa, nella stagione del pascolo (pastura), gli abitanti del Comune, dalle schiette e salde virtù della vita pastorale (del comun la rustica virtù), riuniti al fresco di un ampio spazio ombroso (a l’opaca ampia frescura).

il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
Consol: i Comuni rinnovarono il glorioso titolo dei capi di Stato romano per insignire la loro massima autorità;
santi segnacoli cristiani: la croce e i vangeli;
parto: divido;
al confin: presso il confine. Si tratta dunque di un rustico Comune di confine;
la mugghiante greggia e la belante: gli armenti di bovini e le greggi di pecore.

E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
unno e slavo  sta ad indicare lo straniero in genere, nel ricordo delle invasioni barbariche dei secoli precedenti;
aste: le lance, le picche.

Un fremito d’orgoglio empiva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
eletti: prescelti alla sacra difesa della patria;
il sol grande feriva: il sole batteva sulle loro fronti illuminandole e quasi benedicendole.

Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Gli uomini fremono d’orgoglio, ma le donne, madri o spose o sorelle, sentono l’orrore della parola morrete e pregano piangendo.
La madre alma de’ cieli: la Vergine Maria.

Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
Al nome: nel nome
a man levata: nota qui il singolare usato invece del plurale, poichè il popolo non ha una mano sola; ma il poeta dice man levata come a rendere più intensa l’unione di tutte le mani in una sola;
piccolo senato: la piccola accolta degli uomini che formavano il consiglio del Comune.

La ribellione dei Comuni
Mentre i Comuni, ormai indipendenti, stavano acquistando grande potenza, diveniva imperatore di Germania Federico I della casa di Svevia, chiamato Federico Barbarossa per il colore della sua barba.
Federico era un uomo energico e coraggioso che voleva ricostruire l’unità dell’Impero, come ai tempi di Carlo Magno. I Comuni non vollero però assoggettarsi all’Imperatore, non accolsero i suoi magistrati e i suoi podestà, e rifiutarono di pagargli i tributi, come invece continuavano a fare i feudatari del contado.

Federico Barbarossa in Italia
Federico I decise di richiamare i Comuni all’obbedienza. Venne perciò in Italia nell’anno 1154 e iniziò una lunga lotta contro le città comunali e soprattutto contro Milano, che era la più importante. L’imperatore distrusse Tortona, in Piemonte, poi si diresse verso Roma per esservi incoronato dal Papa.
Ritornato in Germania, quando seppe che i  Comuni d’Italia si erano fatti ancora più potenti, Federico ripassò le Alpi con il suo esercito e circondò Milano. Dopo un assedio lungo e terribile, per salvare la città, dove era scoppiata anche la peste, i consoli andarono dall’Imperatore, gli posero ai piedi gli stendardi e gli consegnarono le chiavi delle porte. Piangendo implorarono pietà. L’imperatore non si lasciò commuovere e distrusse Milano facendo abbattere le sue 300 torri.

La Lega Lombarda
Federico Barbarossa aveva dato ai Comuni italiani una terribile lezione, ma il desiderio di libertà e di indipendenza fu più forte della paura. Nel 1167, nel convento di Pontida, presso Bergamo, si riunirono i rappresentanti delle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte; essi giurarono sul Vangelo di aiutarsi concludendo un patto chiamato Lega Lombarda. Milano fu ricostruita e in Piemonte, in onore del papa Alessandro III che era un fedele alleato dei Comuni, fu fondata la città di Alessandria.

La battaglia di Legnano
Il Barbarossa, per sbaragliare i Comuni in modo definitivo, ridiscese in Italia con un forte esercito. La battaglia decisiva avvenne il 29 maggio 1176 poco lontano da Legnano. I Fanti e i cavalieri dei Comuni alleati sconfissero l’Imperatore, che si salvò a stento con la fuga. Il Barbarossa chiede la pace e riconobbe ai Comuni la libertà di governo.

Per il lavoro di ricerca
I cittadini del Comune erano sempre in lotta: come si svolgeva questa lotta all’interno del Comune?
Che cos’erano le regalie?
Chi accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore?
Quante volte Federico Barbarossa scese in Italia?
Come avvenne la resa e la distruzione di Milano?
Ricerca notizie sulla Lega Lombarda e il giuramento di Pontida. Trova notizie sulla battaglia di Legnano e sulla conclusione della lotta tra i Comuni e l’Impero.
Come avveniva l’incoronazione di un imperatore nei secoli X, XI e XII?
Cerca notizie sull’origine e sul significato del Carroccio e della Compagnia della Morte.
Grande è la figura di Alberto da Giussano; trova notizie esaurienti su di lui.
Chi era Bonifacio VII?
Quando la sede papale fu trasferita ad Avignone?
Quando e per merito di chi fu riportata a Roma la sede pontificia?

La battaglia di Legnano
Dalla quiete dei campi attorno a Legnano, improvvisa come la tempesta, s’era alzata la voce della battaglia.
I fanti e i cavalieri tedeschi, protetti dalle pesanti armature, avevano resistito al primo urto dei soldati lombardi i quali disperavano ormai di poter vincere la superiorità nemica. Le grida dei combattenti si confondevano con le dolorose invocazioni dei feriti. La terra fu ben presto coperta di morti. Nel cielo scintillava la croce del Carroccio, ondeggiava libero il gonfalone ricordando ai combattenti una promessa.
Ad un tratto il sacerdote che celebrava la Messa fu colpito da una freccia e cadde. Allora un giovinetto balzò sul Carroccio, afferrò la corda della martinella e diede a tirare a gran forza. La campana diffuse i suoi rintocchi, chiamò i soldati della Compagnia della Morte perchè difendessero il Carroccio.
Accorsero qui generosi, guidati da Alberto da Giussano, e volsero in fuga i Tedeschi. La martinella continuava a squillare agitata dal coraggioso fanciullo che, perdute le mani per un colpo di spada, aveva afferrata la corda con i denti.
Nel cielo salivano i canti di vittoria dei soldati della Lega.

I COMUNI materiale didattico

Non tutti i cittadini avevano gli stessi interessi
I vari gruppi di cittadini nei quali era divisa la popolazione di un Comune avevano interessi diversi. Ogni gruppo desiderava leggi che soddisfacessero ai suoi interessi.
I proprietari di case e di terreni volevano leggi che garantissero loro di guadagnare molto con gli affitti delle case e con la vendita dei prodotti della terra.
I grandi mercanti e i banchieri volevano che gli affitti delle case e i prodotti della terra costassero poco, perchè in questo modo gli operai che da loro dipendevano avrebbero potuto vivere con un basso salario.
Gli operai volevano un salario che permettesse loro di vivere senza soffrire la fame.
I piccoli artigiani e i piccoli negozianti erano d’accordo con loro, perchè potevano lavorare solo se gli operai, che formavano la maggior parte della popolazione, potevano comprare le loro merci.
Per ottenere quello che voleva, ogni gruppo cercava di eleggere a capo del Comune uomini di sua fiducia. Ma siccome i capi di vari gruppi non riuscivano quasi mai a mettersi d’accordo, allora si ricorreva alla violenza e ai combattimenti.
Come si svolgevano queste lotte all’interno del Comune?
Quando uno di questi gruppi vinceva, cacciava dalla città i suoi nemici, finchè, vinto a sua volta, doveva abbandonare lui il Comune.
Così la vita del Comune era un continuo succedersi di lotte sanguinose. Spesso i grandi proprietari, i grandi mercanti e i banchieri, meno numerosi, ma più potenti, perchè avevano maggiori ricchezze, erano d’accordo in una sola cosa: non permettere ai più poveri di governare.

I Comuni si affermano sul feudalesimo declinante
Fino alla metà del XII secolo i Comuni cittadini poterono moltiplicarsi nell’Italia settentrionale e centrale senza incontrare nel decadente mondo feudale ostacoli seri. I piccoli feudatari, infatti, avevano preferito far causa comune con gli abitanti delle città nella lotta contro i grandi feudatari delle campagne. In tal modo questi ultimi avevano perduto ogni giorno terreno e avevano finito per cedere ai Comuni gran parte delle prerogative e dei privilegi  che i loro antenati avevano strappato ai sovrani dall’epoca carolingia in poi. Così i Comuni si trovarono a disporre di molti poteri che normalmente spettavano all’imperatore o al re (ed erano detti perciò regalie), senza averne ricevuta la concessione da alcun sovrano.
Intanto, dopo un lungo periodo di lotte tra i feudatari tedeschi, seguito dalla morte di Enrico V (1125) ultimo sovrano della Casa di Franconia, nel 1152 saliva al trono imperiale Federico I di Svevia che, gelosissimo dei suoi diritti, subito accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore.

I COMUNI materiale didattico

L’imperatore
Ecco come avveniva l’incoronazione di un imperatore nel secolo X.
I magistrati, l’arcivescovo di Magonza, il clero e il popolo aspettavano il corteo del nuovo re nella basilica di Aquisgrana. Quando esso avanzò, l’arcivescovo gli mosse incontro e toccò con la sinistra la mano destra del re; poi si portò al centro della chiesa, e rivolto al popolo che stava sulle logge disse: “Ecco, io vi conduco Ottone, eletto da Dio, e poco fa proclamanto re di tutti i Principi”.
Poi l’arcivescovo, insieme al re che era vestito di una tunica attillata, si recò all’altare, sul quale erano collocate le insegne regali: la spada con la banboliera, il mantello coi fermagli, il bastone con lo scettro e il diadema. L’arcivescovo prese la spada e, rivolto al re, disse: “Accetta questa spada per proteggere l’Impero dai barbari e dagli avversari di Cristo.”
Preso il mantello, ne rivestì Ottone e disse: “Questi lembi che scendono al suolo ti ammoniscano a proteggere la pace fino alla fine dei tuoi giorni”.
Poi preso lo scettro e il bastone disse: “Ammonito da questo insegne, punisci paternamente i sudditi colpevoli e porgi la mano misericordiosa alle vedove e agli orfani”.
Dopo di che Ottone fu incoronato con un diadema d’oro.

Discesa in Italia di Federico Barbarossa
Nel 1152 fu eletto imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa, il quale, sedate le ribellioni in Germania, scese in Italia per ristabilirvi i diritti dell’impero non più riconosciuti dai Comuni maggiori.
Nella prima discesa che fece al di qua delle Alpi (1154-1155) l’imperatore tedesco si limitò a trattare con ostilità i rappresentanti dei maggiori Comune e, spintosi fino a Roma, abbattè il regime comunale costituito per iniziativa di un monaco ribelle al papato, Arnaldo da Brescia; restituì quindi il dominio della città al papa Adriano IV, dal quale ottenne l’incorporazione imperiale. Arnaldo da Brescia, condannato come eretico, fu arso sul rogo.
Nella seconda discesa, avvenuta nel 1158, Federico si propose di agire più a fondo. Posto l’assedio a Milano, costrinse alla resa la città e obbligò i consoli a prestargli omaggio; poi fece riunire a Roncaglia, presso Piacenza, una dieta di tutti i vassalli italiani, alla quale parteciparono anche alcuni giuristi dell’Università di Bologna. Proprio da costoro l’imperatore fece proclamare, sulla base del diritto romano, la legittimità delle sue disposizioni: divieto assoluto delle lotte private, sia tra città sia tra feudatari; obbligo per tutti di rivolgersi ai tribunali imperiali per risolvere le contese; scioglimento delle leghe tra città e delle Consorterie nobiliari; riconoscimento da parte dei vassalli e dei Comuni, del diritto imperiale di nominare magistrati, coniare moneta, imporre tasse e pedaggi, ecc…
Le deliberazioni di Roncaglia miravano insomma, nei disegni di Federico, a rinsaldare il potere centrale, trasformando i regni d’Italia e di Germania in  una monarchia assoluta.

I Comuni e il Papato si oppongono all’Imperatore

I COMUNI materiale didattico

Questa ambiziosa politica trovò un ostacolo insormontabile nel desiderio di libertà che animava i giovani Comuni italiani. Quando infatti Federico volle imporre alle città alcuni podestà di sua nomina, molte di queste, con a capo Milano, si rifiutarono di riceverli.
Intanto anche il nuovo papa Alessandro III, misurando il pericolo che l’aumentato potere imperiale rappresentava per l’indipendenza del papato, aveva assunto un atteggiamento contrario a Federico, rispondendo con la scomunica al tentativo da questi fatto di contrapporgli un antipapa. Contrariato da tali segni di ostilità, l’imperatore volle subito ristabilire il suo prestigio sulle città italiane e cinse d’assedio Milano.

La resa e la restituzione di Milano
Due anni durò l’assedio, poi la peste ricominciò a infierire fra gli eroici difensori; un incendio distrusse la maggior parte dei magazzini di granaglie e la fame livida tornò a mietere vittime. Sembrava che un fato tremendo pesasse sulla roccaforte della libertà lombarda.
Alla fine del febbraio 1162, sulle torri lesionate della città, la rossa croce del comune venne sostituita dalla bianca bandiera della resa! E dopo la sconfitta, l’umiliazione…
… al primo di marzo i consoli cavalcarono alla volta di Lodi dove il Cesare li attendeva. Appiedati, le spade in pugno, gli giurarono servitù ed obbedienza.
E tre giorni dopo, tutti i nobili e i grandi di Milano, in numero di trecento, vennero a spezzare le loro spade ai piedi del Cesare. Poi il podestà, mastro Guitelmo, in ginocchio gli offrì le chiavi di ferro della città. I trentasei stendardi delle contrade si inchinarono nella polvere. Superbo il sire, circondato dai suoi cavalieri, teneva lo sguardo fisso avanti a sè.
E due giorni dopo, volle anche il popolo. Uscirono da tre porte i Milanesi,  le corde al collo, i piedi nella polvere, le croci in mano. Li seguiva il Carroccio parato a guerra. Squillarono per l’ultima volta le trombe milanesi, la campana rintoccò per l’ultima volta ed il vessillo, il bel vessillo crociato di Milano, cadde nella polvere. L’imperatore ne calpestò i lembi.
Ed il popolo in ginocchio, piangente, chiedeva pietà.
Poi l’ordine imperiale: “Che i Milanesi atterrino le mura e le torri, affinchè l’esercito possa passare schierato a battaglia”. E così fu fatto.
E dopo nove giorni di preghiere, un ordine nuovo: “Vadan disperse le genti di Milano: otto giorni concede l’imperatore per trarre a salvamento robe e masserizie; poi la città verrà distrutta, il sale seminato sulle rovine”. E così fu. Preghiere, pianti di donne e bambini, supplicare di vecchi e malati, nulla piegò il Barbarossa, nulla valse umiliarsi ancora alla bionda imperatrice. Convenne lasciare la città ai fanti di Como e Lodi che la diroccarono al suolo.
Intanto i vincitori, nobili e fanti, saccheggiarono la città di quanto era prezioso, gli altari furono spogliati, le case private di ogni ricchezza.
Ed il 31 marzo l’imperatore, cavalcando il bianco destriero di guerra, seminò lo sterile sale.
Ed era il giorno di Pasqua!
Tanta è l’importanza che Federico ammette a questa sua vittoria su Milano, che egli data ormai i suoi atti e le sue lettere “dalla distruzione di Milano”. (G. Gozzano)

La Lega Lombarda e la battaglia di Legnano
Ma il Barbarossa non aveva potuto piegare l’animo di quei vinti. Il suo trionfo fu breve: le varie città dell’Italia settentrionale, anche quelle che avevano fino ad allora collaborato con l’imperatore, cominciarono a temere della loro futura sorte e in breve si stancarono dell’arroganza dei podestà imperiali. Dall’imperatore erano offese anche nei loro interessi economici: Venezia, ad esempio, che commerciava lungo le vie fluviali con l’Italia settentrionale, ed attraverso i valichi alpini con il centro dell’Europa, vedeva ora sbarrate queste vie dai nuovi prepotenti feudatari tedeschi creati dal Barbarossa.
Perciò nel Veneto cominciò la resistenza: nel 1164 Venezia favorì la formazione di una Lega, detta Veronese, tra Verona, Padova e Vicenza.
L’esempio fu di incitamento: tre anni dopo (1167) alcuni Comuni lombardi, insieme con esuli milanesi, nel monastero di Pontida, presso Bergamo, strinsero una lega anti-imperiale, detta Lega Lombarda, che si  fuse con quella veronese. Gli odi e le gelosie municipali scomparvero di fronte al  comune pericolo. Fu cominciata subito la ricostruzione di Milano. Il papa Alessandro III diede alla lega l’appoggio della sua alta autorità. Perciò la fortezza che i Comuni alleati fondarono in Piemonte, fra il Tanaro e la Bormida, per ragioni strategiche, fu chiamata Alessandria in onore del papa.
Mentre fervevano questi preparativi, l’imperatore era sceso altre due volte in Italia, senza concludere nulla.
Solo nel 1174 si decise a scendere con un grande esercito per schiantare le forze della Lega.
Questa comprendeva allora 36 Comuni e molte Signorie feudali, e si estendeva per tutta la Pianura Padana. Posto invano l’assedio ad Alessandra, dopo sei mesi l’imperatore dovette ritirarsi per non essere a sua volta accerchiato dai nemici. Lo scontro decisivo avvenne a Legnano il 29 maggio 1176 e fu una splendida, decisiva vittoria per l’esercito della Lega.

Giuramento della Lega Lombarda
Nel nome del Signore, amen.
1. Io giuro sui santi Vangeli di Dio che non farò pace ne tregua, ne guerra finta, ne altro accordo con l’imperatore Federico, ne con i figli e la moglie di lui, ne con altra persona in suo nome: e questo non farò io, ne per mezzo di altra persona, e se altri lo facessero non lo approverò.
2. Mi sforzerà in buona fede, secondo il mio potere, con tutte le mie forze, perchè nessun esercito piccolo o grande venga in Italia dalla Germania o da altra terra imperiale che sia oltremonti. E se detto esercito entrasse, io farò guerra attiva all’imperatore e a tutte le persone che sono o saranno del partito dell’imperatore, finchè il predetto esercito esca dall’Italia.
3. Ed io in buona fede e per mezzo di tutte le persone a me soggette salverò e custodirò le persone e le cose di tutti gli uomini della Lega della Lombardia, Marca e Romagna, e specie il marchese Obizzo Malaspina e tutte le persone che ora sono in detta Lega.
6. Tutti questi patti manterrò in buona fede, senza inganno per cinquanta anni continui, e tutto ciò che fosse aggiunto o tolto dal Consiglio dei Rettori della Lega: e lo farò giurare ai miei figli quando abbiano quattordici anni, entro due mesi dal compimento di questa età, e a quanti e quali dei miei piacerà ai Rettori. (C. Manaresi, dal testo latino in “Gli atti del Comune di Milano)

Il Carroccio, simbolo del Comune
A Milano, che divenne Comune nel 1081 dopo un’aspra lotta contro i feudatari, venne creato quello che in seguito divenne il simbolo stesso della libertà comunale: il Carroccio.
Questo era un carro tirato da bianchi buoi, sul quale era eretto un altare, un pennone con lo stendardo (il gonfalone) del Comune e una campana detta martinella.
Il Carroccio seguiva i soldati fin sul campo di battaglia: nell’imminenza dello scontro un sacerdote celebrava la Messa, mentre quando la lotta era già iniziata un addetto suonava a distesa la martinella per incitare i combattenti.
Il Carroccio aveva anche una funzione pratica. Attorno ad esso si raccoglievano le truppe di fanteria non appena la cavalleria nemica stava per sferrare una carica. Così raccolti attorno al carro, i fanti formavano una specie di invalicabile blocco di lance puntate, che era in grado di reggere l’urto dei cavalieri avversari, e di respingerlo. Il Carroccio, con il suo alto pennone sul quale sventolava il gonfalone, serviva anche come punto di riferimento ai soldati: anche nelle mischie più furibonde bastava levare gli occhi in alto per capire subito dove si trovavano i propri compagni.
Perdere in battaglia il Carroccio era il più grave disonore per i cittadini del Comune: per questo ognuno era disposto a morire su di esso, piuttosto che lasciarlo conquistare dal nemico.

Lo stendardo de Carroccio
Così Arnolfo, cronista milanese, descrive l’insegna del Carroccio: “Un’alta antenna, a guisa di albero di nave, era piantata sul Carroccio e si ergeva in alto portando in sulla cima un pomo aureo con due limbi di lino candido pendenti. In mezzo stava infissa la veneranda croce con dipinta l’immagine del Redentore, a braccia aperte rivolte verso le schiere, perchè qualunque fosse l’esito della battaglia, ognuno dei soldati, guardando quell’insegna, ne avessero conforto.”.

L’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni
Tra i due eserciti, quello dell’imperatore, composto di cavalieri, era il più numeroso e quello più pesantemente armato. Quello della Lega Lombarda, meno numeroso, era composto quasi esclusivamente di fanterie.
Ma le fanterie dei Comuni non erano più le fanterie dell’epoca di Carlo Magno, composte di contadini armati di forconi. Erano fanterie di tipo nuovo. Quei fanti erano mercanti e artigiani ben forniti di denaro, che avevano avuto la possibilità di comprarsi un’armatura buone come quella dei cavalieri, e forse anche migliore, perchè nelle valli del bergamasco, proprio vicino a Milano, vi erano artigiani che costruivano le migliori armi d’Europa.
I cavalieri del Barbarossa, coperti, loro e i loro cavalli, da molti chili di ferro, si muovevano non troppo facilmente ed erano abituati ad un tipo di combattimento tutto particolare: due schiere di cavalieri si scontravano frontalmente e raggiungeva la vittoria chi era più pesantemente armato e riusciva a disarcionare i suoi avversari.
La fanteria lombarda aveva armature resistenti ma leggere, che permettevano una notevole facilità di movimenti. Era accompagnata da una certa quantità di cavalieri, che la sostenevano nei momenti più difficili della battaglia.

La battaglia di Legnano
Da Como il Barbarossa con non più di duemila uomini si porta a Cairate; a Legnano le forze della Lega ascendono ad almeno cinquemila uomini.
Tutti i quartieri di Milano risorta hanno i loro uomini e i loro stendardi.
Al vento di maggio garriscono le bandiere: la rossa di Porta Romana, la bianca di Porta Ticinese, la balzana (bicolore) di Porta Vercellina, l’inquadrata di bianco e di rosso di Porta Comacina; Porta Nuova ha lo stendardo col leone bianco e minacciosa sventola fosca la bandiera nera di Porta Orientale.
Il Carroccio coi bovi bianchi aggiogati porta in alto, sopra il castelletto, il legno ove era appesa la campana, il gonfalone del Comune con la grande croce rossa sul campo candidissimo del drappo.
Intorno su trecento carri stanno le milizie popolane. Un esercito di uomini, di bandiere, di animi,  che attende la sua ora.
L’imperatore ordina l’assalto. La mischia si fa terribile e sanguinosa. Le ondate di cavalieri tedeschi si rinnovano. I Milanesi cedono e poi si riprendono, si sbandano e si radunano in alterna vicenda.
Sul Carroccio la martinella suona a distesa, i trombettieri sotto il grandinar delle frecce lanciano il loro squillo.
L’imperatore ha l’intuizione del pericolo mortale: è un soldato e non dimentica di esserlo: un nuovo assalto è comandato da lui, egli è in prima fila, alto, vicino al vessillifero  che porta l’aquila dell’impero.
La galoppata mortale si avventa ancora una volta contro i Milanesi che resistono; si vede nella mischia scomparire la bandiera dell’impero e poi anche l’imperatore non si vede più.
I suoi si sgomentano. E’ la sconfitta; il panico prende le forze imperiali; fuggono i Pavesi e i Comaschi, fuggono i Tedeschi, lasciando dietro di loro  il tesoro, i bagagli, i morti , i feriti.
I Milanesi avanzano, raccolgono il bottino, inseguono per un poco i fuggitivi e poi li lasciano.
Hanno vinto, hanno fretta di ritornare, di correre alla città che li attende a dir la grande, l’incredibile novella: l’imperatore è sconfitto, non lo si trova più, forse è morto in battaglia, il suo esercito è disperso, il ricco tesoro di guerra, lo scudo e la spada stessa del Barbarossa sono nelle mani dei Milanesi. (E. Momigliano)

Consuntivo della battaglia di Legnano
Così riferirono i Milanesi a Bologna la battaglia di Legnano: “Non si poterono contare gli uccisi, gli annegati, i prigionieri. Lo scudo dell’imperatore, il suo vessillo, la croce e la lancia caddero nelle nostre mani. Fra i suoi bagagli abbiamo trovato molto oro e argento; nè crediamo che sia possibile fare una precisa stima del cospicuo bottino che abbiamo fatto. Durane la battaglia sono stati fatti prigionieri il duca Bertoldo,  il fratello dell’arcivescovo di Colonia e lo stesso nipote dell’imperatore”.

lega lombarda

Il Capitano della Compagnia della Morte
Il comandante dei cavalieri della Compagnia della Morte fu Alberto, detto da Giussano perchè nativo di Giussano, paese che si trova vicino a Milano.
Nelle cronache del tempo egli è anche indicato col nome di Alberigo,e soprannominato “il Gigante” per la sua alta statura.
Capitanò una schiera di eroi che, prima di partire in battaglia contro il Barbarossa, giurarono sulla croce di morire piuttosto di cedere davanti al nemico. Infatti si dovette alla resistenza della Compagnia della Morte, al suo slancio audace e temerario, gran parte del merito di avere vinto a Legnano, il 29 maggio 1176, l’imperatore germanico, sgominando le sue truppe.

Papa Bonifacio VIII
Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa medioevale, ed in un mondo mutato tentò di riaffermare i diritti della chiesa, come ai tempi di Gregorio VII e di Innocenzo III.
Ma, se per qualche tempo potè avere successo, non riuscì invece ad avere ragione della resistenza del Re di Francia, Filippo IV il Bello, che volle imporre nuove tasse sul clero francese. Il papa lo minacciò di scomunica ma il re di Francia inviò a Roma i suoi emissari, con a capo Guglielmo di Nogaret, che con l’appoggio della famiglia nobile dei Colonna, poterono impadronirsi dello stesso pontefice, ad Anagni, presso Roma, dove egli si trovava. Sembrava anzi che egli venisse allora oltraggiato dai suoi nemici, tanto che questo triste episodio passò alla storia col nome di “schiaffo di Anagni”.
Ma il popolo insorse, liberò il papa, e lo ricondusse a Roma, dove morì un mese dopo.

Trasporto della sede papale ad Agignone
Qualche tempo dopo il nuovo papa, francese, lasciò addirittura Roma e l’assenza del Papato dall’Italia durò circa settant’anni, dal 1305 al 1377.
Essa si stabilì in Avignone, nel sud della Francia, in una zona che divenne possesso pontificio; ivi i papi furono protetti, o piuttosto, soggetti al re di Francia, anche se a più riprese tentarono di riconquistare la loro indipendenza. Ma il danno maggiore di quest’assenza del papa da Roma fu per l’Italia che si vedeva privata dell’onore di essere sede papale, e abbandonata allo scatenarsi di tutte le discordie intestine fra principi e città, fino allora tenute a freno, in assenza dell’imperatore, dal papa. Soprattutto in Roma e nello Stato della Chiesa si scatenò la più grande anarchia, e questi territori furono rattristati da una guerra continua.
Finalmente, nel 1377, il papa Gregorio XI, cedendo alle preghiere e agli inviti che gli venivano da ogni parte d’Italia, e specialmente alle appassionate ed insistenti invocazioni di Santa Caterina da Siena, riportò a Roma la sede pontificia.

Leggenda
Si narra che, per aver ragione della resistenza di Crema, il Barbarossa fece accostare alle mura della città una torre mobile sulla quale aveva legato alcuni giovinetti cremaschi, avuti in ostaggio. Ma i valorosi difensori non desistettero dal lanciare coi mangani le pietre contro la torre, gridando ai giovinetti: “Beati voi che morite per la patria!”.

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

E' pronto il nuovo sito per abbonati: la versione Lapappadolce che offre tutti i materiali stampabili scaricabili immediatamente e gratuitamente e contenuti esclusivi. Non sei ancora abbonato e vuoi saperne di più? Vai qui!