PRIMA GUERRA MONDIALE e il 4 novembre materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Il quattro novembre
Con questa data l’Italia vuole ricordare la vittoriosa fine della guerra 1915-18 e, insieme, celebrare l’unità della Nazione e la giornata delle Forze Armate.
L’Italia è una nazione libera, democratica, civile, che non ha alcuna intenzione di offendere, ma che non vuole essere offesa, che vuol salvaguardare la pace, senza abdicare alla sua dignità, che vuole l’unità europea, ma non per questo dimentica le sue tradizioni, le sue glorie, i suoi Morti, i suoi grandi uomini. Tutto questo costituisce un patrimonio spirituale che non va messo in disparte, ma ricordato e valorizzato senza falsa retorica, senza esagerazioni, ma con giusto orgoglio, per ciò che l’Italia ha fatto nel passato e per ciò che si propone di fare nell’avvenire.

4 novembre 1918
Questa data segnò la fine di una lunga guerra, che aveva insanguinato tutta l’Europa. L’Italia vi aveva partecipato per liberare le province di Trento e di Trieste, per ristabilire, quindi i suoi confini là dove la natura li aveva segnati con una corona di monti superbi.
Seicentomila soldati italiani morirono e alla loro memoria ogni comune dedicò un monumento o una lapide che ne reca incisi i nomi. Oggi, ragazzi, onoriamo quei Caduti, visitiamo quei monumenti, leggiamo quei nomi. Sono stati scritti perchè voi serbiate la memoria di chi è morto per darvi una Patria più grande e più gloriosa; tutta unita entro le linee che le Alpi scintillanti di ghiacci e i mari azzurri d’acque profonde hanno tracciato per lei.
Dopo quella guerra vittoriosa, altre guerre sono venute per la nostra Patria: innumerevoli sono stati i morti e i dispersi, le case distrutte, i campi devastati, le famiglie sterminate.
Per tutte le vittime, per tutti gli eroi, oggi il nostro ricordo e il nostro amore sono vivi e profondi.

Quattro novembre 
Nel secondo decennio del novecento, l’Italia era una giovane nazione che non aveva ancora completato la sua unità. Trento e Trieste erano ancora fuori dai nostri confini. L’Europa era devastata da una grande guerra. Per frenare l’imperialismo dell’Impero austriaco e di quello tedesco, e per liberare le terre italiane d’oltre confine, l’Italia scese in guerra!

Il Piave mormorava
calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio:
l’esercito marciava
per raggiunger la frontiera,
per far contro il nemico una barriera…
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti!
S’udiva, intanto, dalle amate sponde
sommesso e lieve il mormorio dell’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave  mormorò:
“Non passa lo straniero!”.

La guerra fu dura, lunga e atroce.  I soldati di batterono sulle colline pietrose, sui monti impervi, contro fortificazioni nemiche, che erano giudicate imprendibili… Quando dalle trincee di prima linea si segnalava l’ora dell’assalto, erano momenti terribili…

“Pronti? Alzo sette… Fuoco! Fuoco di batteria!”

Ma quando tutte le bocche
dei cannoni cantarono,
all’ora fissata,
per completare la strage,
l’ansia strinse ogni gola,
e ognuno sentò
tonfare dentro il suo cranio
come sopra a un timpano
spaventoso
il rombo.

Traballava la terra
come una casa di legno;
il cielo parve incrinarsi
ogni tanto come cristallo;
Pareva si dovesse
spezzare e precipitare,
a schegge celesti ogni tanto
tra gli schianti e gli strepiti.

E sulla prima linea
nessuno fiatava
sentendo sul cuore
ognuno battere,
come gocce di sangue,
i minuti terribili
che misurano il tempo
vicino all’assalto.

“All’assalto! All’assalto!”

Molti furono i morti e i feriti, molte le battaglie, molte le vittorie. I soldati italiani conobbero ogni sacrificio, ogni gloria. E quando la sciagura d’una sconfitta minacciò l’esistenza stessa della Patria, diventarono tutti eroi.

E ritornò il nemico
per l’orgoglio e per la fame:
volea sfogare tutte le sue brame.
Vedeva il picco aprico
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora…
“No” disse il Piave. “No” dissero i fanti
“Mai più il nemico faccia un passo avanti!”.
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E come i fanti combattevan l’onde…
Rosso del sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
“Indietro va’, straniero!”

E venne infine, dopo quattro anni, il giorno della vittoria…

(Dal Bollettino della vittoria) La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto la guida di Sua Maestà il Re, duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrottamente e asprissima, per quarantun mesi, è vinta.
La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre e alla quale prendevano parte 51 divisioni italiane, 3 britanniche, 2 francesi, 1 cecoslovacca e un reggimento americano contro 63 divisioni austro-ungariche, è finita.
La fulminea arditissima avanzata su Trento del XXXIX Corpo della I Armata, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte a Occidente dalle truppe della VII, della X Armata e delle Divisioni di Cavalleria ricaccia sempre indietro il nemico fuggente.
Nella pianura, Il Duca d’Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta III Armata, anelante di ritornare sulle posizioni da essa già gloriosamente conquistate, che mai aveva perdute.
L’esercito austro-ungarico è annientato: esso ha subito perdite gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni di lotta e nell’inseguimento; ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressoché per intero i suoi magazzini e depositi: ha lasciato finora nelle nostre mani 300.000 prigionieri con interi Stati Maggiori e non meno di 5.000 cannoni.
I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza.
$ novembre 1918 . ore 12)

Per il lavoro di ricerca
Perchè commemoriamo il 4 novembre?
Quando iniziò e quando terminò la grande guerra?
Che cos’è la Patria?
Perchè molti eroi sono caduti per la Patria?
Sai raccontare un atto eroico compiuto da qualche soldato valoroso?
Conosci qualche leggenda patriottica?
Chi è il Milite Ignoto?
Conosci qualche canzone sull’eroismo e sulla resistenza dei fanti d’Italia?

I giovani soldati morti
I giovani soldati morti non parlano. Ma nondimeno si odono nelle tranquille case: chi non li ha uditi? Essi posseggono un silenzio che parla per loro di notte e quando la sveglia batte le ore.
Dicono: fummo giovani. Siamo morti. Ricordateci.
Dicono: le nostre morti non sono nostre; sono vostre; avranno il valore che voi darete loro.
Dicono: se le nostre vite e le nostre morti furono per la pace e una nuova speranza o per nulla non possiamo dire; sarete voi a doverlo dire.
Dicono: noi vi lasciamo le nostre morti. Date loro il significato che si meritano.
Fummo giovani, dicono. Siamo morti. Ricordateci. (Archibald Mac Leish)

La prima guerra mondiale
La prima guerra mondiale iniziò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, dopo l’attentato che aveva ucciso l’arciduca ereditario austriaco Francesco Ferdinando, a Sarajevo. Fra le maggiori potenze coinvolte nella lotta furono: da una parte la Francia, l’Inghilterra, la Russia, la Serbia, la Romania, il Belgio, poi, l’Italia e gli Stati Uniti; dall’altra la Germania, l’Impero Austro-Ungarico, la Bulgaria, la Turchia.
L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915. Dopo alcune grandi battaglie campali in Belgio, in Francia e in Russia, il conflitto divenne guerra di trincea, sanguinosissima e lunga. Sul fronte italiano, dopo alcune importanti battaglie e vittorie (degli Altipiani, dell’Isonzo, di Gorizia, del Piave, ecc…) e una sconfitta (Caporetto), venne la prima vittoria decisiva di tutta la guerra con la battaglia campale di Vittorio Veneto, ove fu annientato l’esercito austriaco (dal 23 ottobre al 3 novembre 1918). Il 4 novembre fu dato l’annuncio della vittoria.

Il Milite Ignoto
Siamo nel 1921: Roma è tutta un fremito. Un affusto di cannone trasporta una bara di quercia coperta dal Tricolore. E’ la salma del Milite Ignoto, che va a prendere dimora sull’Altare della Patria perchè in lui gli Italiani ricordino tutti i Caduti della prima guerra mondiale.
Pochi giorni prima, nella città di Aquileia erano state presentate alla mamma di un caduto in guerra dodici salme di soldati sconosciuti, ed ella aveva alzato il braccio tra le gramaglie e ne aveva indicata una.
Ecco la motivazione della Medaglia d’Oro che l’Italia assegnò al Milite Ignoto, cioè a tutti i soldati morti in guerra: “Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz’altro premio sperare che l a vittoria e la grandezza della Patria”.

Guerra di trincea
Sulle pianure grigie e malinconiche o a mezza costa dei monti dove la guerra s’era accanita, si alzavano lunghe strisce di intrichi che tendevano immobili le braccia al cielo, come boschetti di piantine scheletrite. Erano reticolati.
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel terreno, celate, traditrici; seguivano le pieghe più adatte del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano tra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; non erano larghe più di un metro e mezzo alla bocca e, quando erano finite, erano profonde due; gli uomini avanzavano a fatica in esse, inciampando e scivolando. Coi numerosi camminamenti, tortuosi e sottili, si allacciavano ai ricoveri e ai paesi dove le truppe stavano in riserva; un movimento di flusso e riflusso continuo le percorreva.
Davanti al reticolato e alla trincea, si stendeva, fino all’altro reticolato e all’altra trincea, la squallida “terra di nessuno”.
Fra i reticolati, le trincee e la “terra di nessuno”, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo.
Stavano essi a combattere sul più duro suolo che Dio avesse creato. Una parte era aggrappata disperatamente al Carso. L’Isonzo dinanzi formava il gran fosso. Gli Austriaci avevano fatto dell’altipiano di macigno, da Gorizia al mare, una fortezza che pareva inestricabile e inespugnabile. Già il terreno nemico si difendeva da sè. Sorgevano dappertutto piccoli monti duri e nudi, senza vegetazione, ognuno dei quali nascondeva un agguato. Il suolo impraticabile era seminato di  tagliole. Avvicinarsi al nemico era impresa pazza. Contro il sole o il vento non alberi; contro la sete non acqua; contro l’insidia nemica nessun riparo.
Quei fanti che non combattevano sul Carso stavano a guardia della montagna: impresa anch’essa durissima. Dall’ottobre cominciava a nevicare. Nella notte, spesso, un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con terra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano sui monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là,  sordo, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

4 novembre …uno degli austriaci portava, alta, una bandiera bianca
Il cannone continuava a tuonare. Le nubi grigie ne rimandavano l’eco rimbombante; sembrava un tuono, ora più rabbioso, ora sordo; sembrava spegnersi, e poi tornava a farsi sentire più forte. La battaglia infuriava ovunque, ormai, dalle montagne giù giù sino al mare. La corrente impetuosa dei fiumi del Veneto recava con sè barche sfondate, pali anneriti dal fuoco, assi, rottami. Gli italiani gettavano ponti, e l’artiglieria austriaca li distruggeva. Ecco. Tra i relitti, qualche corpo umano. Un povero soldato, venuto da qualche lontana parte d’Italia per morire sul Piave…
Il cannone tuonava da ogni parte. L’offensiva italiana era cominciata il 24 ottobre 1918; si combatteva dallo Stelvio al Lago di Garda, e via via sino al Grappa, poi lungo il Piave sino all’Adriatico.
Si combatteva per riconquistare il Veneto occupato dagli austriaci, per liberare l’Italia, per vincere la guerra. Quella era la battaglia decisiva. Lo sapevano tutti, italiani ed austriaci.
E tutti s battevano, disperatamente, per guadagnare un po’ di terreno, o per difenderlo: “Tutto il popolo italiano guarda in questo momento a noi, cui sono affidate in quest’ora le sorti della Patria”: così aveva proclamato agli italiani il nostro comando; ed il comando austriaco, arrogante: “Sarebbe una vergogna senza nome” aveva gridato alle sue truppe e al mondo “se gli italiani dovessero vincere!”.
Si combattè furiosamente per cinque giorni; caddero migliaia di uomini.
La mattina del 29 ottobre, alla trincea del Gufo, vicino a Serravalle all’Adige, in val Lagarina, si udiva il cannone tuonare da ogni parte. Ma là, c’era una relativa calma. Le sentinelle tenevano d’occhio la strada, devastata dai bombardamenti, e la linea ferroviaria, che si perdeva su, su per la stretta valle verso Rovereto e Trento. Dietro agli avamposti, si ammassavano le truppe per un attacco; c’era quella atmosfera piena di orgasmo e di tensione e di attesa che precede la battaglia…
D’un tratto, lungo la scarpata della ferrovia, apparvero tre uomini. Tre austriaci. Venivano avanti tranquillamente, come se camminassero non tra due eserciti nemici, ma su una bella strada qualsiasi…
Le sentinelle italiane alzarono i fucili, pronte al fuoco.

No. Non spararono. Rimasero là, ad occhi sbarrati, a guardare i tre austriaci. Ciò che vedevano non lo avrebbero mai più dimenticato.
Non spararono. Perchè uno dei tre austriaci portava, alta, una bandiera bianca.
L’Austria chiedeva un armistizio.
Un ufficiale, un portabandiera ed un trombettiere, venivano ad accettare la “vergogna senza nome”, a riconoscere cioè, che gli italiani avevano vinto.
La richiesta di armistizio fu accolta dagli italiani, e nel pomeriggio del 30 ottobre, su alcune automobili, sei ufficiali austriaci iniziarono le trattative, in una bella villa a qualche chilometro da Padova. E là, nella Villa Giusti, attorno ad un lucido tavolo rotondo, gli ufficiali italiani dettarono le condizioni di resa. Si dovette discutere a lungo, per tre giorni. Laggiù, in quella sala elegante, non giungeva il rombo del cannone, nè il grido delle truppe lanciate all’assalto, nè il crepitio secco delle mitragliatrici. Ma, mentre si discuteva, l’attacco italiano continuava, e le truppe austriache erano sconfitte, travolte, poste in fuga, e poi accerchiate e catturate; ed il Veneto veniva riconquistato, e la nostra bella bandiera piantata a Trento ed a Trieste..
L’armistizio fu firmato il 3 novembre. Il giorno dopo, 4 novembre, su tutto il fronte scese un grande silenzio, e non si sparò più. La bandiera gialla e nera degli austriaci fu ammainata. Il tricolore prese il suo posto.
L’Austria, però, fece di tutto per non riconoscere la sua sconfitta. Nella speranza di salvare il suo esercito, propose di sospendere le operazioni militari; poi cercò di far credere che, in verità, gli italiani non avevano dovuto combattere veramente, per vincere. Pur di non consegnare la sua flotta all’Italia, la consegnò alla Jugoslavia…
Tutto ciò, però, non potè cambiare la realtà. E la realtà è che gli austriaci, ormai in grande disordine, con i soldati che non volevano più obbedire ai comandanti, e che si abbandonavano agli incendi e ai saccheggi, furono spazzati via dal Veneto, o catturati; la realtà è che, in conseguenza alla sconfitta austriaca in Italia, la Germania (che era alleata all’Austria, e che combatteva in Francia contro i francesi, gli inglesi e gli americani) si decise ad arrendersi.
La realtà è che, dopo la battaglia decisiva, “i resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”.
Così, il 4 novembre 1918, gli italiani vinsero l’ultima guerra del Risorgimento; vinsero la loro “grande guerra”. E così, sacrificando più di mezzo milione di uomini, tra i quali i più giovani, i più forti, i più sani, e moltissimi dei migliori, che avrebbero dovuto prendere la direzione ed il governo della nostra Patria, gli italiani portarono a compimento l’opera iniziata dai loro nonni più di cento anni prima; e ci diedero l’Italia tutta intera, fino ai suoi confini naturali, che non potranno mai più essere toccati e discussi.
Così vinsero, restando per mesi e mesi nelle trincee, piene di fango e di pioggia e di topi; o gettandosi all’attacco, sicuri di morire, su per le montagne bruciate dal fuoco e scavate dal ferro; vinsero soffrendo la fame ed il freddo sulle posizioni scavate nella roccia, o battendosi disperatamente tra le macerie dei paesi del Veneto martire. Così vinsero tenendo duro, in mezzo all’amarezza ed allo scoraggiamento, dopo sconfitte e ritirate, quando tutto sembrava crollare intorno. Vinsero umilmente, facendo il loro dovere senza chiasso e senza fanfare.
E sono i nostri trisnonni, quelli della guerra mondiale, sono i nostri bisnonni: loro sono quelli del Piave e di Vittorio Veneto.

La guerra 1915 – 18
All’inizio del 1900 Inghilterra e Germania sono rivali. Questa rivalità provoca la Triplice Intesa (Inghilterra, Francia, Russia) in opposizione alla Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia).
La Serbia, spalleggiata dai Russi, si assume il compito dell’irredentismo slavo e la penisola balcanica diventa il punto di partenza per un conflitto che in un primo tempo localizzato, dovrà far scaturire, poi, la scintilla che susciterà un incendio immane. Questa scintilla sarà l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando che avviene il 28 giugno 1914.
Scoppia la guerra fra Austria e Serbia. In breve, quasi tutte le Nazioni europee, per le rispettive alleanze, vengono coinvolte nel conflitto. In Italia, fallite le speranze di ottenere dall’Austria, in cambio della neutralità, Trento e Trieste, città italiane ancora sotto il dominio austriaco, prevale la corrente interventista. La guerra è dichiarata il 24 maggio 1915. Subito scoppiano violente battaglie contro il nostro schieramento che va dal Trentino all’Isonzo. L’Austria vuol punire l’audacia degli Italiani e li ferisce nel profondo catturando e suppliziando i martiri dell’irredentismo: Chiesa, Sauro, Battisti e Filzi. L’Italia reagisce all’offensiva delle armi e dello spirito e le nostre truppe occupano Gorizia (9 agosto 1916).
La guerra continua fra disagi e sofferenze di ogni genere. Dopo quattro anni di dura guerra di trincea, si diffonde fra i soldati un senso di generale stanchezza. Una propaganda pacifista scatenata nel momento più propizio, darà presto i suoi frutti. L’esercito italiano, indebolito e avvilito per la disfatta di Caporetto durante la quale gli Austriaci, fanno migliaia di prigionieri, è costretto a retrocedere al di qua del Tagliamento.
E’ il momento più critico della guerra. Ma gli Italiani si riprendono dal momentaneo smarrimento e si stringono in una disperata volontà di resistere. Sul Piave da una parte e sul Monte Grappa dall’altra, gli Austriaci trovano una resistenza inaspettata.
La Marina italiana compie imprese che hanno del leggendario. Nella famosa Beffa di Buccari, alla quale partecipò il poeta Gabriele D’Annunzio insieme a Luigi Rizzo e a Costanzo Ciano, tra nostri motoscafi attaccano di sorpresa due grosse navi mercantili austriache che si credevano al sicuro entro le ben riparate insenature della costa.
Nel novembre dello stesso anno, i nostri marinai affondano la Viribus Unitis, la nave ammiraglia della flotta austriaca, nel munitissimo porto di Pola.
Intanto, sul fronte nemico, era schierato un esercito di due milioni di uomini, ma gli Alpini, al canto di “Monte Grappa, tu sei la mia Patria”, si tenevano saldi, fieri nel loro motto: “Di qui non si passa!”. Nell’anniversario di Caporetto, le nostre truppe sferrano, sul Piave, un forte attacco con gli aiuti degli Alleati a cui si era aggiunta l’America, e questo attacco si conclude con la decisiva battaglia di Vittorio Veneto e l’occupazione di Trento e Trieste (24 ottobre e 4 novembre).
Fra l’Italia e l’Austria viene firmato l’armistizio. La guerra è finita.

4 novembre 1918
Oh, la gioia di quei giorni, quando il Bollettino di Diaz annunciò il trionfo! La guerra era durata quattro anni. Milioni di  soldati avevano combattuto nelle trincee, sul mare, nell’aria. Di loro, 600.000 non tornarono più. Ma il sacrificio dei fori dava la vittoria alla Patria. Trento e Trieste liberate si congiungevano alla gran Madre. Voi non eravate ancora nati. Eppure, per tutti voi, per l’Italia dell’avvenire, la guerra fu combattuta e vinta. (G. Fanciulli)

Il milite ignoto
Per rendere onore a tutti i seicentomila morti nella guerra 1915 – 18, se ne scelse uno senza nome, che fu portato con grandi onori a Roma e collocato ai piedi dell’Altare della Patria. Il Milite Ignoto rappresenta tutti i prodi che fecero olocausto della loro vita perchè l’Italia sopravvivesse e fosse più rispettata nel mondo. Chi onora la tomba del Milite Ignoto intende onorare, attraverso quello, i combattenti italiani di tutte le guerre.

La campana di Rovereto
E’ la sera del 2 novembre. Attraverso la radio si diffonde, in tutto il mondo, un suono lento, grave solenne: Don!… Don!… Don!… E’ la voce di “Maria dolens”, la campana di Rovereto. Essa ci ricorda i caduti, tutti i caduti della guerra: italiani, francesi, inglesi, tedeschi, austriaci, russi, serbi, croati, giapponesi, americani… Sono migliaia e migliaia di uomini che rivivono nel suono della campana. Queste cose dice al nostro cuore il suono: Pace!… Pace!… Pace!… Vogliatevi bene! Siate tutti fratelli!… Soltanto la pace può rendervi felici! (R. Dal Piaz)

Il 4 novembre
Questo giorno così vicino a quello della commemorazione dei defunti, ci ricorda l’eroismo di coloro che caddero per la Patria, che sacrificarono la loro giovane vita per darci un’Italia più grande, più forte, più rispettata. Fanciulli, non dimenticate coloro che sono morti in guerra. Anch’essi avevano dei figli, una mamma, una famiglia. Eppure, per compiere il loro dovere, non esitarono a fare l’ultimo sacrificio.

Trincee
Dietro i reticolati si aprivano le trincee. Sprofondavano nel suolo, celate, traditrici; seguivano le pieghe del terreno, salivano faticosamente, scendevano a precipizio, si nascondevano fra le piante, tagliavano le strade, rigavano i prati; dove c’era un canaletto d’acqua, un arginello, una siepe folta, là si acquattavano, per ricomparire un momento su un dorso duro di colle e su un tratto di pianura pietrosa, e scomparire di nuovo, ingoiate dalla terra. (A. Gatti)

Zona di guerra
Nell’acqua non lampeggiava riso di colore. Una larga fascia d’ovatta avvolgeva uomini e cose. Dove la terra si confondeva col cielo, al di là dei fiumi che si coprivano di nebbia, si addormentavano le città e i paesi devastati. La solitudine e la disperazione pesavano sulla terra. Tra i reticolati, le trincee e la terra di nessuno, stette schiacciata al suolo, per tre anni e mezzo, la folla senza nome dei fanti d’Italia, dei contadini, degli operai, dei piccoli impiegati. Milioni di uomini, ai quali era toccata l’opera più tremenda tra i fanti del mondo. (A. Gatti)

Epigrafi del cimitero di Redipuglia
Che ti importa il mio nome? Grida al vento: “Fante d’Italia!” e dormirò contento.
Più che il metallo alla trincea fu scudo dell’umil fante il forte petto ignudo.
Mamma mi disse: “Va’!” ed io l’attendo qua.
Seppero il nome mio gli umili fanti, quando balzammo insieme al grido: “Avanti!”.
Ogni mattina, mamma, ed ogni sera, io sento l’eco della tua preghiera.

In trincea
Che fatica infinita! Gli occhi di tutti erano velati di stanchezza e di dolore. Nessuno che non abbia vissuto nelle trincee del Carso e delle Alpi può sapere quanta disperazione sta in certi momenti nel cuore dell’uomo. I giorni di battaglia erano spaventosi, ma la grandezza del pericolo esaltava le forze. I giorni soliti, i giorni tutti uguali, in cui la morte coglieva uno a uno i suoi, qua e là, senza parere… quelli erano i più terribili…Eppure, i fanti d’Italia resistevano, e combattevano, e vincevano. (A. Gatti)

La trincea
Nella notte, spesso un metro di neve cadeva a coprire i dormienti e i morti. Con le proprie mani, rompendo la roccia a palmo a palmo, accoppiando pietra con pietra, il fante costruiva con pena la strada e il sentiero che salivano i monti. Il cielo era gelido e muto. Attraverso le valli e sulle creste dei colli, gli zappatori scavavano con fatica e con pazienza la trincea; la neve continuava a cadere, il freddo era acuto, si sentiva al di là, sonoro, il lavoro del nemico che pure vigilava. (A. Gatti)

Cimiteri di guerra
Uomini sepolti in tutti i cimiteri di guerra d’Europa, d’Asia, del mondo; mi inginocchi sulle vostre tombe come se tutti mi foste fratelli. Uomini che irroraste col vostro sangue la terra, là dove giace la spoglia mortale di uno solo tra voi, là siete tutti. Là rendiamo omaggio al fante italiano caduto nella steppa e sugli affocati deserti africani, all’americano e al giapponese caduti nella giungla selvaggia delle isole dei mari del Sud, al tedesco morto all’ombra di un antico campanile italiano. L’identico destino, l’identica morte vi affratellano. (A. M. Kanayama)

Il prete dei soldati
Parlava così quel prete barbuto,  con la sua grossa voce
pacata, l’uomo dalla purpurea croce
stampata larga sul petto, qui sul lato
sinistro, dove sotto il grigio verde affaticato
batteva forte il suo puro cuore di crociato;
Parlava, il prete, diritto e grande sui gradini
di neve, dall’altare di neve lassù ai confini
della patria, agli alpini proprio accosto alla trincea:
immensità! neve: vette: cielo: non c’era
altro, parlava semplice tra la densa barba nera;
diceva: “Qualcuno di voi, quelli che tornano
di laggiù li han veduti; ma tutti certo li conoscono:
li avete visti stampati i grattacieli americani,
quei palazzi mostruosi, torri di venti di trenta piani
che, con le case di qui, sono come i giganti coi nani.
Quei palazzi sono armati, dentro, da una grande ossatura
di ferro: un gabbione di ferro che tiene la muratura.
E ci sono operai specialisti per quel primo lavoro
del ferro: non facile: pericoloso. E molti, i più tra loro,
sono nostri, italiani: gente che ha le mani d’oro.
Un giorno, uno di questi, molto bravo nel mestiere,
condusse il figlio, un bimbo di quattr’anni,  al cantiere.
Prese i ferri: e poi, che fa? piglia su il piccoletto,
se lo lega coi ferri alla cintola ben stretto,
e su, per le armature, a lavorare sull’orlo del tetto.
Tutti fuori, appesi a una fune, dondolandosi sulla voragine,
padre e figlio. E la gente, laggiù non si dava pace,
ferma sui marciapiedi a guardare: “Che matto!” “Che cuore!”
“E la polizia che fa?” “E’ suo figlio!” “Ah, sì? bell’amore
di padre!” “Povera creatura! Sarà già morto dal terrore!”
L’uomo badava al lavoro suo. E quando fu l’ora
di scendere, scese: tranquillo; e tutta la gente allora,
tutti addosso al bambino: “Uh, guarda che cera che ha!”
“Di’: hai avuto paura? Molto, è vero?” “Di’: vieni qua…”
Ma il bimbo, sorpreso, fece: “Paura? Io? No! C’era papà…”.
Silenzio. Lo guardavano senza un respiro gli alpini.
“Ebbene, vedete. Anche noi siamo come bambini,
piccoli, piccoli, deboli, in faccia all’incerta sorte,
sospesi anche noi, sempre, ad ogni attimo, sulla morte.
Oh, ma anche per noi c’è il padre nostro che è forte!
Lui ci vuole qui a combattere: lui, il padre onnipotente
è giusto. Siamo con lui! Siamo degni! E non temiamo più niente!
Come quel bimbo, fratelli! E allora, ditemi, quale minaccia,
quale nemico, quale pericolo volete più che ci faccia
paura, se noi stiamo, sempre, tra le sue braccia?”
Si voltò all’altare, e “Credo in deum patrem…” pregò:
e il giro delle piante ferrate sul gelo crocchiò.
Un giorno, poi, quel prete fu portato a un ospedaletto
da campo, grave molto: una pallottola nel petto.
Ma tranquillo. Perchè egli era un confidente bambino
tra le braccia del padre.
S’è battuto bene: da alpino:
con la sua bella croce sanguigna sul cuore: in Trentino. (G. Zucca)

Lettere dal fronte a Cecilia Dolceamore

Cecilia dolceamore,
volevo scriverti ieri sera, ma c’erano troppe stelle, tante che pareva bastasse allungare una mano per coglierle. E tu sei venuta da me per guardare insieme le stelle, come facevamo a casa, nelle sere d’estate.
Abbiamo ritrovato Cassiopea, il Gran Carro, Arturo, e la piccola Orsa, quella che ti piaceva tanto.
Faceva fresco e tu tremavi un po’ e allora tu sei abbracciata a me per riscaldarti. Ho detto a Vincenzo di suonare l’armonica. Anche  ora che siamo in guerra. Vincenzo è sempre lo stesso spensierato soldato che tu hai conosciuto. Ha tirato fuori l’armonica dalla tasca della giacca, se l’è passata sulle labbra e si è messo a suonare una canzonetta allegra. Tu hai sorriso e il tuo sorriso splendeva più delle stelle. Poi ti sei addormentata con la testina sul mio petto, dove il cuore batteva piano per non disturbarti.
Abbiamo passato la notte così, ma, stamattina, quando mi sono destato, non c’eri più, Cecilia dolceamore, e allora ho voluto scriverti perchè così mi pare di stare ancora con te.
Voglio raccontarti una storia che è un po’ triste, ma poichè tu vuoi sapere i fatti della guerra, è necessario che tu conosca anche le cose tristi. Se ci pensi bene, il dolore, in guerra, splende di un’altra luce. Cecilia dolceamore, anche la storia del soldatino mitragliere splende di una luce solare.
Devi dunque sapere che c’era, qui, un piccolo mitragliere. Era un ragazzo sardo, bruno e piccolo di statura. Il Capitano gli aveva promesso di proporlo a sergente, a patto che egli fosse riuscito a buttar giù un apparecchio nemico. E il piccolo sardo voleva diventare a tutti i costi sergente. Da quel giorno s’era appostato con una mitragliatrice e non aveva più levato gli occhi dal cielo. E tutti gli portavano da mangiare e da bere in buca perchè quello non si sarebbe mosso di lì.
Gli apparecchi arrivavano, ma passavano alti. Sdegnavano la nostra piccola postazione, per andare a sganciare le bombe dove c’era da fare più danni.
“Almeno si fermassero qui a tirar bombe!” sospirava il soldato mitragliere. E Vincenzo rispondeva, le bombe un corno, perchè non gli piaceva quella storia.
E così  i giorni passavano, e il soldatino sparava, sparava sugli apparecchi lontani, ma gli aerei pareva nemmeno si accorgessero di quelle sventagliate troppo corte.
Il mitragliere scriveva a casa che presto sarebbe stato sergente e la mamma rispondeva che nei giorni di licenza glieli avrebbe cuciti lei, i galloni, sulla manica della giubba. Ta ta ta, faceva la mitragliatrice, ma sparava sempre a vuoto, nel gran cielo turchino.
Un giorno, finalmente, un apparecchio passò a tiro. E il soldatino sparò come un pazzo, ma era un pazzo che aveva imparato a inquadrare una rondine nel mirino. L’apparecchio rimase colpito. Cadde giù a piombo con una coda di fumo che si allungava nel cielo. E mentre cadeva, sparava anche lui, sventagliate di ferro e di fuoco, sui soldati nascosti dalle rocce.
Lo videro, che andava a frantumarsi sul terreno e poco dopo c’era una gran colonna di fuoco.
Tutti gridarono di gioia, solo il piccolo sardo no. Era rimasto nella sua buca, rattrappito sull’arma, ma il suo viso splendeva perchè prima di morire aveva visto l’apparecchio cadere.
Cecilia dolceamore, adesso ti dirò che cosa ha fatto il Capitano, quello che aveva promesso al soldatino di proporlo per l’avanzamento a sergente, se avesse abbattuto un aereo. Quel Capitano, di nascosto, quando nessuno lo vedeva, andò ad attaccare i gradi d’argento sulla giubba del soldatino caduto. Di nascosto, perchè il regolamento non consente di promuovere i morti, ma proprio non gli reggeva il cuore di farlo seppellire senza quei galloni d’argento che egli aveva tanto desiderato.
Cecilia dolceamore, il piccolo sardo adesso dorme nel cimitero di guerra e i suoi occhi, bruciati dal troppo guardare, sono ormai chiusi per sempre, ma la sua bocca sorride. E il suo cuore non è più in ansia perchè il suo sogno è ormai appagato.
Figlietta, non essere triste. Forse, un giorno, di questa storia faranno una canzone e Vincenzo la suonerà sull’armonica. E allora, vedrai che non ti sembrerà più una storia triste.
Adesso ti debbo lasciare. Mi metto le tue manine fresche sul viso che brucia. Che sollievo! Mi pare di avere sulle guance due petali di rosa.
So che la mamma ti ha fatto un vestitino celeste. Ho bisogno urgente di vederti con quel vestitino. Cercherò di sognarti così.
Tu ancora dormi e qui il cannone ha già cominciato a sparare. Dormi con la mano sotto il viso e fiori, sul balcone, il canarino canta per salutare il nuovo sole. Qui, col sole, è cominciata la musica, una musica di rombi e di scoppi che fa assordire. Ma negli intervalli, io riesco a sentire il canarino che canta. E vedo le tue ciglia tremare per trattenere il sonno che vuole lasciarti.
E su quelle ciglia che lievemente tremano, Cecilia dolceamore, ti bacia il tuo papà.

Cecilia dolceamore,
il tuo papà ti bacia le manine che hai bianche e gentili e vi appoggia la faccia ispida, ma leggermente, per non farti male.
E col viso perduto nella freschezza delle tue mani, ti racconta una storia che non sa se allegra o triste: una storia vera di questa terribile guerra.
C’era stata battaglia, Cecilia dolceamore, e molti morti giacevano sul terreno. Molti morti, amici e nemici, e all’alba, i soldati della Croce Rossa e il Cappellano andarono per comporli piamente nel piccolo cimitero.
Cecilia, dolce bambina mia, non farmi vedere lacrime nei tuoi occhi, altrimenti io non potrò più raccontarti i fatti di questa guerra, la storia del soldato Girò, storia triste e allegra.
L’avevano trovato morto, il soldato Girò, su uno sperone di roccia e l’avevano riconosciuto dalle scarpe nuove gialle, così gialle da non poterle confondere con nessun altro paio di scarpe. Gliele avevano date la mattina e lui aveva riso vedendole così gialle. “Sembro un canarino!” aveva detto.
Lo avevano riconosciuto fra i morti solo per le scarpe, il soldato Girò. Cecilia dolceamore, non chiedere di più. Tu credi che i soldati che muoiono in guerra, restino tutti sorridenti, con un bel viso pulito e tranquillo? Non è così, figlietta, ma tu pensa sempre che sia così. E’ bello sapere che una bimba vede i morti in battaglia col viso irradiato di luce come gli angeli.
Ma il soldato Girò non aveva più viso e  l’avevano riconosciuto solo dalle scarpe gialle e nuove.
Lieve era caduta su di lui la terra e ora dormiva sotto una croce di legno dove c’era scritto il suo nome.
Ma l’indomani, il soldato Girò riapparve. Con le scarpe gialle e nuove. Lo guardai stupefatto. Salutò e mi disse che non era potuto venir prima perchè era rimasto nelle linee nemiche e solo durante la notte aveva potuto svignarsela. Uno sbaglio, soldato Girò, e gli mostrai la sua tomba.
La guardò e tacque. Passò un’ora a grattare il suo nome dalla croce, poi rimase a fissare la piccola zona grattata dove non c’era più scritto “Soldato Girò” e dove ormai non si poteva scrivere nessun altro nome.
Vincenzo, quando lo vide, rise.
“Sei resuscitato?”
Risero anche gli alti e gli fecero festa. Vincenzo suonò l’armonica in suo onore. I nemici, sentendo suonare e vociare, spararono. Qualche colpo come a domandare quello che succedeva.
Poi venne l’ordine di spostarsi. Facemmo in fretta i preparativi. Smontammo le mitragliatrici, ci agganciammo i sacchi sulla schiena. Dov’era il soldato Girò? Nessuno lo trovava. Vincenzo, per chiamarlo, si passò l’armonica sulle labbra e ne cavò un trillo.
Io lo sapevo dov’era e andai da lui. Era davanti alla tomba del soldato con le scarpe gialle. Aveva acceso un lumino. Si fece il segno della croce e venne via con me.
E mentre si marciava, quel lumino ardeva nella notte e pareva una stellina caduta dal cielo. Ed eravamo in due a voltarci, io e il soldato Girò.
Cecilia dolceamore, ho finito. Forse questa storia ti è sembrata troppo triste. Non è neppure un po’ allegra come mi sembrava in principio, ma io, vedi, dovevo raccontartela perchè quel lumino, in questa guerra così tremenda e spietata, è una cosa gentile. Soave e gentile come un fiore. E io so che ti piacciono le cose gentili.
Tu a quest’ora dormi perchè è tardi e sei stanca. Un tuo ricciolo biondo si è sfatto sul guanciale e pare una seta l’oro. Cecilia dolceamore, ho bisogno, un bisogno assoluto di posare il mio viso su quella seta d’oro.
Ti bacia il tuo papà.

Figlietta,
oggi ho visto un fiore giallo. Lo coltivava un soldato dentro il bossolo di un proiettile e lo annaffiava amorosamente con l’acqua della borraccia. Cecilia dolceamore, ho accarezzato i petali di quel fiore giallo, chiudendo gli occhi, e sognavo di accarezzare la tua guancia gentile. Oggi il soldato ha bevuto una volta sola, perchè con l’acqua ha innaffiato il fiore. Vedi, è necessario qualche volta amare un fiore, perchè altrimenti, questa guerra ci farebbe troppo duri e indifferenti. Così duri che si può essere chiamati Cuore di Sasso.
Era al Colonnello che avevano dato questo nome, un viso duro e asciutto dove non balenava mai la luce di un sorriso. Cuore di Sasso viveva nella sua baracca, non parlava mai con nessuno, solo per i terribili cicchetti che dava ai soldati. Erano loro che lo chiamavano Cuore di Sasso.
Gli facevano un rigido saluto quando passava. Pareva, quando passava il Colonnello, che una nuvola nera offuscasse il sole e tutti i visi diventavano scuri.
Ora senti, figlioletta, che cosa è avvenuto. Il motociclista era andato a prendere la posta. Non tornava. Tutti guardavano la strada e gli occhi dolevano per il troppo guardare. C’era un soldato, poi (si chiamava Esposito), più ansioso degli altri. Si sporgeva fuori dal riparo e il nemico, allora, sparava qualche colpo.
Il Colonnello l’aveva guardato col cipiglio e quello, sotto il suo sguardo, si rincantucciava.
“Mi deve nascere un bambino!” diceva sorridendo. Non aveva più soggezione nemmeno di Cuore di Sasso.
Cannocchiali, occhi bruciati dal sole fissi sulla strada.
“Bisogna andare a vedere” disse il Colonnello. “Può essere rimasto ferito. Ha gli ordini del Comando”.
“Vado io, signor Colonnello?” e il soldato Esposito sorrideva timidamente e alzava la mano come a scuola, quando i ragazzi vogliono essere interrogati. “Per via del bambino…”.
Cuore di Sasso accennò di sì con la testa e il soldato Esposito inforcò la motocicletta, felice.
I nemici gli spararono dietro, ma poi la moto scomparve nel polverone. Gli occhi si riposarono dal gran guardare. Ricominciò l’attesa, scandita dai colpi rari di artiglieria. Ricognitori altissimi nel cielo.
Poi, i soldati tornarono ad affacciarsi. Cuore di Sasso imprecava che stessero giù, , mica per loro, teste matte, ma perchè in guerra la vita d’ogni soldato è preziosa.
Infine, un lontano rombo scoppiettante. Tornavano. Una motocicletta sopraggiungeva; sopra l’erano due soldati curvi, troppo curvi.
Quando arrivarono, c’era tutta una striscia di sangue dietro a loro. Avevano tracciato una strada.
Li tirarono già dalla macchina. Il portalettere era ferito, ma in modo non grave; il soldato Esposito aveva la schiena spezzata.
Il motociclista raccontò. Un aereo l’aveva mitragliato. Era rimasto sulla strada, ferito, e la macchina resa inservibile. Poi era arrivato il soldato Esposito. L’aveva caricato sulla sua moto, ma era tornato l’aereo. Esposito si era accasciato sul manubrio, poi si era ripreso. Non l’aveva creduto ferito grave. E invece, era finito.
Ora, il soldato Esposito giaceva sopra una brandina e guardava, senza parlare. Guardava il sacco della posta con gli occhi lucidi e ansiosi.
Cuore di Sasso dette ordine di aprire. Ricevette la posta nelle sue mani ossute. C’era anche un telegramma.
“Per te” disse al soldato Esposito che sorrise, felice.
Il Colonnello aprì il telegramma. Lo lesse.
“E’ nato un bel maschietto. Si chiamerà Italo. Mamma e bambino stanno bene. Baci”.
Il viso del soldato Esposito si spianò dolcemente. Le palpebre calarono piano piano sugli occhi e la bocca rimase socchiusa nel sorriso.
Cuore di Sasso gli prese il polso, poi dette ordini per il seppellimento. Aveva la gola secca, non poteva parlare. Gli era rimasto il telegramma in mano; lo consegnò a me.
“Bisogna rispondere al Comando che il telegramma non è stato consegnato per morte del destinatario”.
Lo lessi. Comunicava che la moglie del soldato Esposito era morta in seguito a bombardamento, nell’ultima incursione sulla città.
Il telegramma mi cadde di mano; preso dal vento aleggiò come un fiore, un fiore giallo.
Cuore di Sasso ispezionava le cucine. Sentii che dava un formidabile cicchetto al cuoco perchè nel rancio aveva messo troppa conserva. E quello, ristupidito, diceva di sì e stava sull’attenti con due enormi mazzi di gavette in mano.
Cecilia dolceamore, quando tornerò tu mi prenderai la mano e mi condurrai nei giardini fioriti, vicino alle vasche dei pesci rossi. Tutto sarà molto nuovo per me.  E non finirò di ammirare. Ma se qualche volta vedrai un’ombra scendere sul mio viso, passaci sopra la tua manina. Bisogna cancellare dai miei occhi la visione di quel telegramma svolazzante come un fiore giallo. Perchè, vedi, se non si potesse cancellare quel ricordo, non sarei più capace di godere della vista dei giardini fioriti e dei pesci rossi. E la vita sarebbe troppo difficile.
Ti bacia il tuo papà.

(Mimì Menicucci)

Patria
O Patria, parola sì breve
sì grande, tra tante parole,
che brilli di fuoco e di neve,
e odori di scogli in un fervido accordo
le genti vicine e lontane,
e chiami a la prece e al ricordo
con voce di mille campane;
o Patria, sii tu benedetta
per ogni remota contrada,
sei sangue e rugiada, sei vita e bontà.
O Patria, dai monti alle sponde
sei tutta un sorriso di Dio!
Te cingon di fremiti l’onde
confuse in un sol balenio.
E tutta un’immensa bellezza
dal vivo tuo cuore s’espande
letizia, virtù, giovinezza
per culmini e lande, per campi e città. (L. Orsini)

Milite Ignoto
Non sappiamo il tuo volto, o Sconosciuto,
non il tuo nome rude di soldato,
è ignoto il luogo che santificato
fu dal tuo sangue quando sei caduto;
ma il tuo viso fu bello e fu divino:
forse un imberbe viso giovinetto…
Lo vedo all’ombra fosca dell’elmetto
sorridere con occhi di bambino.
Fu nostro sangue il sangue tuo vermiglio…
Sei senza nome, ed ogni madre, ignara,
inginocchiata presso la tua bara
singhiozza un nome, il nome di suo figlio;
E che risuona in tutte le fanfare…
Hai la tua casa in ogni casolare,
ed appartieni a tutti i reggimenti.
Sente ogni madre il suono della voce
nota al suo cuore, eppure tu sei muto…;
e là, sul campo dove sei caduto,
tutte le croci sono la tua croce.
Da quelle tombe un monito e un saluto
con severo silenzio tu ci porti:
son tutti i cuori dei fratelli morti
chiusi nel cuore tuo, o Sconosciuto! (P. Rocco)

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